LUCIO SALIS © 1994 - Roma

 

 

 

 

LEI NON SA CHI SONO STATO IO

 

(Storie vere di ex uomini illustri, raccontate dalle loro zie.)

 

 

 

 

 

 

Capitolo primo

 

 

 

 

FRANCESCO    COSSIGA

 

 

IL MEDITERRANEO  E’  UN LAGO SARDO...

 

BUONO A SAPERSI

 

 

 

-    Cossiga sostiene pubblicamente che Carnevale è il miglior giudice italiano.

 

 

 

-    Cossiga nomina Giulio Andreotti  SENATORE A VITA.

 

 

 

FRASI  CELEBRI:  ”In Italia non ci sono due Presidenti della Repubblica.

C’è un solo Presidente e sono io. O, almeno: così  mi ha detto Andreotti...”

F.Cossiga

 

 

(Riferendosi a Craxi nel Dicembre 1990)

 

 

PROLOGO

 

 

Ora che sono passati alcuni anni dalla Presidenza di mio nipote, posso finalmente dare sfogo alla VERITA’. Ho quindi deciso di dare alle stampe questi miei appunti scritti in epoca non sospetta.

Devo, prima di tutto, ringraziare mio padre Bachisio (il “ nonno pastore” di cui ha parlato una volta in Inghilterra mio nipote Chicchinu (Francesco), facendo anche una figura da provinciale... poteva dire cow-boy) per avermi permesso di utilizzare i suoi appunti e per avermi aiutata a ricostruire la figura e l’opera di mio nipote. Per la figura ho impiegato 2 anni. Per... l’opera 2 ore.

Tanto per cominciare, mio padre non è mai stato pastore. Protestante sì. Tant’è che ancora protesta sempre e non gli va mai bene niente.

Buon sangue non mente.

Per la verità, quand’era ancora giovane, sui settantacinque anni, e Chicchinu era un frugoletto di quattordici anni, nonno Bachisio, così chiamerò d’ora in avanti mio padre, aveva deciso di comprare delle pecore...

Dovete sapere che a quel tempo, in Sardegna, le scuole erano poche e la fame tanta, (come oggi) perciò ogni padre, ogni nonno, ogni fratello maggiore, non vedevano l’ora di mandare i maschi piccoli della famiglia a custodire le greggi.

La pecora è la più grande industria della Sardegna (anche noi abbiamo  i nostri...agnelli! Questa battuta è di Previti.N.d.Z.);e poi ancora non c’era la televisione a rubare preziose braccia all’agricoltura e alla pastorizia.

Così, mentre tutti i coetanei del nostro ex Presidente erano costretti a custodire le pecore, nonno Bachisio era stato costretto a comprare alcune pecore per custodire Chicchinu. In questo modo, Chicchinu non era più solo. Le pecore guardavano lui e lui guardava le pecore. Si guardavano per tutto il giorno ed era molto bello.

Forse era un presagio, chissà , un segno del destino.

Forse proprio allora mio nipote pensò di darsi alla politica.

Ma procediamo con ordine.

 

 

LA SARDEGNA

 

 

Non si può parlare del Presidente Cossiga senza parlare prima della sua terra d’origine.

La Sardegna è una regione bellissima, così bella che certi turisti, appena arrivano, ne rimangono affascinati, folgorati, certe volte persino rapiti.

Secondo nonno  Bachisio la Sardegna è un’isola.

Ma  i sardi non sono isolani, no: ISOLATI sono! Per via dei trasporti carenti e del governo latitante. Per fortuna le cose stanno cambiando.

La vecchia flotta dei traghetti scassati o maleolenti sta per essere sostituita da navi fiammanti.  Vedi la “ Moby Prince” e  la “Moby Dream”.

Una calda accoglienza! Una vacanza di fuoco!

E il governo regionale latitante, prima o poi, si dovrà costituire.

Vicino a casa nostra, quando Chicchinu era piccolino, c’era un bellissimo stagno Adesso c’è ancora, ma oltre allo stagno c’è amianto, piombo, mercurio... E poi dicono che la Regione non fa niente!

A quei tempi le donne andavano tutte allo stagno per fare il bucato, cercando di non disturbare mio nipote che si allenava a camminare sulle acque.

Anche adesso molte donne che non hanno la lavatrice vanno allo stagno per fare il bucato. E sono anche contente perché non si devono portare il detersivo da casa: c’è già nell’acqua!

Oltre alle bellezze naturali (quando un sardo muore e va in paradiso comincia a criticare...), in Sardegna c’è una fauna UNICA: noi abbiamo la foca monaca (LA… perché ce n’è rimasta solo UNA viva, le altre sono rimaste troppo attaccate alle eliche dei fuoribordo dei turisti moderni, che vanno a giocare civilmente nei paraggi delle loro grotte, oppure si sono disposte intorno ad una fiocina di qualche sub particolarmente originale...).

Poi abbiamo il muflone (IL … perché... idem).

Anche di muflone ce n’è rimasto solo uno, però è miliardario! Ormai si è fatto furbo e pretende le royalties su ogni  foto pubblicata.

Anche su questo fronte le cose stanno cambiando, c’è più rispetto per la natura. Basta carneficine inutili! Ora è permesso solo il “safari fotografico” e quindi i turisti si sono adeguati, appena vedono il muflone o un cinghiale, subito, gli tirano addosso la polaroid.

 

 

USI E COSTUMI

 

 

La Sardegna , è noto, vanta una civiltà remota.

Oltre cinquemila anni fa, mentre in tutto il mondo il massimo della residenza era “la grotta”, i sardi inventarono i NURAGHI.

Da cui i milanesi copiarono il panettone.

Le grotte erano fredde e umide e infestate da ogni sorta di animali.

I nuraghi, si scoprì ben presto, erano freddi ma umidi. E infestati da ogni sorta di animali.

Ma i sardi, che erano astuti, lasciarono gli animali nei nuraghi e loro si adattarono a dormire fuori. Davanti al fuoco, ma senza rompere i coglioni al prossimo con armoniche a bocca e ballate melense in texano stretto  (scusate il linguaggio). Perciò da noi i coyotes non ululano.

Un progenitore del famoso architetto, certo Pansecu, decise che i nuraghi erano brutti. Oltre che scomodi. Ma ormai erano più di ottomila, che fare? Tempo al tempo... Non più di vent’anni fa, grazie agli insediamenti nella Costa Smeralda, sparirono quasi mille brutti nuraghi trasformandosi come per magia in: fondamenta, recinzioni di ville, fondali granitici per piscine; insomma, tutti i martamarzottisti e i berlusconisti della costa volevano il loro bel nuraghe personalizzato.  Un boom!

Gli altri brutti nuraghi, specialmente quelli posti vicino al mare, vennero accuratamente mascherati alla vista da opportune palazzine, villette a schiera, ecc.

Anticamente, la Sardegna era difficilmente raggiungibile e i numerosi viaggiatori erano costretti a lunghi ed estenuanti bivacchi, in attesa di qualche “legno” chi li trasportasse.  Come oggi...

Era difficilissimo, quindi, anche lasciare l’isola.

Non avete idea di quanti eroi frustrati si siano dati al bere o abbiano    preso la terribile via del FORMAGGIO MARCIO (allora le Comunità non c’erano ancora e Muccioli sarebbe morto di fame), per la delusione di non poter varcare il mare e dimostrare al mondo il proprio coraggio in epiche gesta. Ecco perché nei libri di storia o nei colossal cinematografici figurano  tutti : Ben Hur, Solimano, Erik il Vichingo         , ecc. Ma non figura nessun eroe che si chiamasse Cuccureddu, Porceddu  o  Zamburru!

Parlando di eroi, lo stesso Garibaldi è morto a Caprera! I libri di storia dicono che l’Eroe si ritirò a Caprera...

NON E ‘ VERO!

Garibaldi era venuto in Sardegna, come tanti , per un week end, poi, non trovando modo di ripartire, c’è rimasto. In tutti i sensi.

E qui sono rimasti anche tutti i suoi cimeli.

Forse non tutti sanno che l’Eroe dei Due Mondi era il più grande collezionista di cimeli di Craxi e Spadolini.

Del primo, è custodito presso il museo Regio di Olbia un piccolo “Palazzo Marino di Milano”, mirabile riproduzione lavorata a mano, donatagli per “grazia ricevuta” da un cognato balzato  agli onori della cronaca per essere molto “preso” da una dialettica col giudice Di Pietro...

Di Spadolini, Garibaldi, conservava la superba collezione di conchiglie. Questa collezione era talmente vasta che l’Eroe, non trovando in casa  un posto capace di accoglierle  tutte, teneva le conchiglie sparse per le spiagge. Dove ancora si trovano e si possono ammirare. Basta spostare qualche busta di plastica o qualche coccio di vetro o qualche lattina arrugginita; avendo cura di rimettere tutto a posto, per non turbare l’ecosistema.

La Sardegna, tradizionalmente, vanta un’economia basata sull’agricoltura e sulla pastorizia.

L’agricoltura sarda è governata dall’anarchia più totale: nel senso che in pianura cresce di tutto e in maniera molto bella e disordinata. Casual.

Molti agricoltori prima piantavano cavoli, poi hanno piantato carciofi, poi hanno piantato tutto e se ne sono andati a Torino per lavorare alla Fiat.

La terra sarda, dove c’è (c’è granito dappertutto) , è molto fertile.

In tutto il mondo i funghi nascono sotto gli alberi, in Amazzonia i funghi sono alti quanto gli alberi, da noi gli alberi nascono sotto i funghi. Anche perché abbiamo la tipica vegetazione mediterranea: nana.

Altrove, sopra le fragole ci mettono la panna. In Sardegna, se non ci mettiamo il letame, col cavolo che crescono!

Dove non c’è la terra c’è il granito, che si usa, nelle zone interne, come mangime per le galline al posto del grano: in effetti le uova delle galline sarde sono molto più piccole ma dure! e le donne sarde si lamentano sempre perché hanno tutte le padelle ammaccate.

Nelle zone costiere, invece, il granito, sotto forma di scogliera, serve per essere venduto agli Aga Kan e al Cav. Silvio, che ci fabbricano sopra tanti bei ghetti per vip.

La pastorizia ha dei grandi vantaggi:  i contributi regionali, i contributi CEE, e il fatto che, per poter fare il pastore , non si ha bisogno di sondaggi  nè di un attestato della Bocconi. Per ora...

Il pastore vive con le pecore e vanno molto d’accordo, anche se non si parlano. Anzi il pastore a volte parla e i nipoti dei pastori, spesso, straparlano pure. Anche se questo non è il caso di Chicchinu miu.

Si racconta di un umile pastorello, accosciato all’ombra di una quercia secolare regolamentare e circondato dal suo gregge, il quale ha resistito per ore, in silenzio, agli assalti di un turista armato di famigliola vociante e di apparecchiature fotografiche del valore di svariati milioni, che continuava, regista “in nuce”, a bersagliare il povero bimbo di: “Guarda verso l’infinito...l’orizzonte...Così... Più triste... sorridi... perfetto”.

Alla fine, il piccolo guardapecore esausto, ad un “Lo sai parlare l’italiano?” di troppo, ha risposto annoiato:”Guarda che, se non metti a 100 Asa, ti bruci tutta la pellicola. O coglione!”

Un’altra risorsa della Sardegna è la pesca. Ma quella vengono a farla i pescatori di Mazara del Vallo.

Gli stagni e il mare erano molto pescosi.

Nel settembre del 1947, un certo Antonio Melis (detto Ferdinando) pescò un’orata così grande, che subito arrivò un fotografo da Sassari per immortalarla. Solo la fotografia pesava 4 chili!

Adesso se si riesce a pescare qualche pesciolino, questi ti ringrazia per averlo tirato fuori dall’acqua inquinata: “Un altro po’ e ci rimanevo”!

Nonostante tutto, sono in aumento i pescatori dilettanti che si servono delle canne.

Alcuni se le fanno addirittura da soli, le canne,  e Pannella li conosce tutti. Questi non prendono mai niente, ma sono i più tranquilli. Nei pressi di Olbia, sono stati notati due pescatori dilettanti che utilizzavano delle canne mozze. Avevano anche la matricola dei mulinelli limata. L’unica cosa che hanno a portato a casa è stato un mega contratto d’appalto per la costruzione del porto-canale di Cagliari. Erano due  siciliani di Forza Italia.

La tipica imbarcazione sarda per la pesca si chiama “fassòni” ed è fatta di giunchi e asfodelo intrecciati. I fassònis si riconoscono subito perché, mezz’ora dopo la partenza, si sentono le voci dei pescatori che gridano, “Aiuto! Aiuto!”

 

 

 

LE DONNE

 

 

Le donne sarde sono di poche parole. Anzi, solitamente, ne dicono soltanto una: NO. E mio nipote lo sa bene.

In Sardegna il femminismo ci fa ridere, perché qui abbiamo sempre comandato noi. Esiste da sempre il matriarcato. E lo tiriamo fuori ogni volta che ci fa comodo. Provate a chiedere a una donna di Brescia o  di Roma:

“ Cosa fa suo marito?” Quella risponderà: l’idraulico, i medico, il ragioniere.Provate a rivolgere la stessa domanda a una sarda... “QUELLO CHE VOGLIO IO.” Sarà la fiera risposta. Le sarde sono riservate fino al momento del matrimonio. A quel punto si scatenano. Il matrimonio tipico sardo si svolge così: dopo la cerimonia, mentre gli invitati mangiano, bevono e ballano (e i genitori litigano per stabilire chi deve pagare il ricevimento), la sposina trascina il neomarito su per la camera da letto. Chiude bene a chiave; si spoglia con una certa riluttanza e sistema bene i vestiti su una cassapanca antica. Quindi ricupera lo sposino da sotto il letto o da sopra l’armadio e, dopo averlo spogliato, sistema anche gli abiti di lui accanto ai propri. Infine, presi i suoi vestiti e quelli del marito, apre la finestra e scaraventa i capi d’abbigliamento di sotto. Tanto, quando lui  lei usciranno da quella stanza, quei vestiti saranno già belli e passati di moda!

Le donne sposate, raramente, si concedono avventure e dànno poca confidenza agli estranei.

Un amico di Chicchinu è dovuto andare a letto per più di due mesi con una signora di Tempio, prima di convincerla a fare un giro in macchina con lui.

Niente a che vedere con il libertinaggio di certe continentali, che fumano, dicono parolacce e si fanno sorprendere dai mariti mentre si dibattono sulla moquette, senza niente addosso, tranne l’idraulico.

Da noi nemmeno si usa la moquette.

 

LUOGHI COMUNI

 

 

Uno dei più vieti luoghi comuni che riguardano la Sardegna è che essa sia una terra dimenticata da Dio. In realtà , io non credo che Dio se la sia dimenticata affatto: l’ha spostata apposta!

E comunque,  dai tempi dei tempi, da un capo all’altro dello stivale, si è udito il minaccioso “TI SBATTO IN SARDEGNA!” Quando qualcuno combinava qualcosa che non piaceva ai superiori, veniva “sbattuto in Sardegna”...

Ci chiediamo, che cosa mai avranno combinato Agnelli, De Benedetti o Berlusconi, che, regolarmente, tutti gli anni vengono “sbattuti” qui per almeno due mesi?!

Per non parlare di Craxi, quello lo hanno sbattuto addirittura in Tunisia.

Altro luogo comune è che i sardi sono piccoli e scuri...

Tanto per cominciare, qui si usa lavorare. E quando in una famiglia nasce un figlio maschio c’è gran tripudio: non è una bocca in più, ma DUE BRACCIA in più! Appena il frugolo compie cinque o sei anni, gli si dice il fatidico “Cresci, cresci che vai a lavorare”.

Per questa ragione molti fanno un” tiè!” con l’ombrello e si rifiutano di crescere.

Eppoi, la bassa statura molte volte aiuta. Prendiamo la Brigata Sassari: quei ragazzi, in pratica, vincevano le battaglie da soli! Venivano discriminatamente messi in prima linea, davanti a bersaglieri, alpini ecc. e, siccome il nemico sparava ad altezza d’uomo, venivano colpiti molto difficilmente. Una carneficina tra i veneti delle ultime file.

SCURI... Il popolo sardo è, notoriamente, molto riservato ed educato.

Qual è la famiglia dove non succedono screzi tra coniugi? Anche da noi capita che ci siano discussioni in famiglia, ma è costume che, prima di iniziare una disputa, i genitori mandino i bambini a giocare in cortile o per strada. Ecco che, a forza di restare così a lungo sotto il sole, si ottengono dei bei ragazzi molto abbronzati.

Chissà quanto litigano in Africa!

Ma come dice nonno Bachisio:” Il mondo è bello perché è avariato!”

BANDITI SARDI... Si sente parlare, da almeno cento anni, di questa fantomatica “banda dei sardi”. Prendi un giornale e trovi un titolone sparato a nove colonne: “Presa la banda dei sardi”. Poi leggi: “...stamattina verranno interrogati dal Sostituto Procuratore i banditi catturati ieri grazie ad una brillante operazione(omissis)... I sette malviventi, Gino Fontolan, Ambrogio Brisighella, Roberto Diotallevi, Guido Pozzan, Osvaldo Procaccianti, Luigi  Percuoco e Gavino PUDDU.

UNO c’è n’è!!! Un sardo che si chiama PUDDU.

E magari è anche figlio di emigrati da generazioni!

“ARRESTATA LA BANDA DEI SARDI”!

 

.

 

Devo ricordarmi di dire a Chicchinu di fare qualcosa per questo. Bisogna che metta in riga i giornalisti. Bisogna “normalizzare”, come dice Previti.

Certe volte, sì, càpita che qualcuno dei nostri ragazzi col sangue caldo si lasci andare a qualche gesto  un po’ forte.

Ma, anche ieri, sulla cronaca di un popolare quotidiano è apparsa la notizia: “Preso un giovane (sardo) e denunciato a piede libero per porto abusivo di coltello”.

E ce l’aveva sì un coltello: ma conficcato tra le scapole, ce l’aveva! Questo, mi si passi il termine, è razzismo bello e buono. Diamine! Eppoi, cosa vuol dire quel SARDO tra parentesi?! Perché non ci scrivono mai: umbro, o milanese, o toscano... tra parentesi?!

Buoni quelli! I toscani. Sono quelli che parlano maggiormente male di noi sardi, però sono sempre qui a fare razzìe. Appena si apre la stagione venatoria, i traghetti che partono da Livorno sono pieni di cacciatori toscani assatanati: appena giungono in vista della nostra costa, cominciano a sparare. Già dalla nave. A tutto quello che si muove, sparano.

Generalmente, si  salvano solo i deputati sardi o gli assessori.

Tanto quelli... e quando si muovono, quelli?!

Questo succede perché il popolo sardo è molto ospitale.

Noi abbiamo sempre ospitato tutti, dai punici ai romani, dai mori agli spagnoli. E non si può dire che i sardi siano invadenti. Anzi... INVASI da sempre siamo stati!

 

 

NONNO BACHISIO

 

Mio padre era così povero che lo mettevano persino sulle pagine gialle. Quando diventò pezzente, diede una festa.

In Sardegna, allora, non c’era quasi niente: niente lavoro, niente sviluppo economico, niente locali notturni... in pratica come adesso, solo che oggi c’è lavoro per i forestali, grazie ai numerosi incendi, e ci sono le industrie. Chiuse.

Lui aveva ereditato un piccolo pezzo di terra. Terra tipica sarda: bruciata.

Ma era talmente fiaccato dalla povertà che non la lavorava neanche la terra, la mangiava così com’era.

Già da allora qui c’era molta emigrazione.

Anche se qualcuno aveva escogitato la pensata di mandare le donne incinte a partorire direttamente a Sesto S. Giovanni, a Torino, o addirittura in Belgio. Così i futuri operai nascevano già lì, e via.

Anche nonno Bachisio era sempre in un altro stato: in stato  di ubriachezza.

Lui beveva tanto per dimenticare. Si dimenticava di aver già bevuto

tanto... e così ricominciava.

Poi si lamentava. “Quando Galileo diceva: - Il mondo gira.- Tutti a gridare al genio. Quando lo dico io che il mondo gira, tutti guardano in cielo e dicono che sono di nuovo ubriaco.”

Però anche lui...

Un giorno si presenta al bar col fido amico Baroschi, un noto imbroglione, e ordina dieci litri di vermentino.

Il barista gli chiese se avevano portato un recipiente e lui, offesissimo: “Quale recipiente?! Io contengo sei litri, lui almeno quattro! Recipiente!...”

La verità era che bevendo dimenticava l frustrazioni .

Dimenticava anche di tornare a casa.

“Mi sento un beone!” Fondò anche “La fossa dei beoni” e ne divenne presidente. Persone “alte in grado”...

A novantanove anni voleva cambiare sesso. Non nel senso di Amanda Lear, ma perché ne voleva un altro. Nuovo.

Mio padre è sempre stato un grande peccatore: ubriacone, donnaiolo, giocatore, manesco, ignorante e presuntuoso. Secondo lui, il Mediterraneo è un “lago sardo”...

Però era buono. Sempre pronto ad aiutare tutti, specialmente le donne che s’offrivano. Ma non era solo per il sesso; anche se, preso quello, lasciava perdere il resto. Non se ne lasciava  scappare una.

“Sa hemmina no cheret fastizzàra, cheret chirràd’a terra istrumpàda e coddàda.” diceva (la donna non dev’essere corteggiata, va sbattuta per terra , bloccata e ...).

Quando rientrava, dopo una notte di baldorie, mia nonna lo redarguiva rassegnata:”Ancora ubriaco sei?”

E lui. “Certo! Se non fossi ubriaco mica tornerei qui!”

Cercò in tutti i modi un lavoro qualunque. Si mise persino a fare lo stilista. Inventò lo stile casual. Ma era troppo in anticipo sui tempi e i suoi clienti li chiamavano “pezzenti”.

Quando vide che non c’era verso di fare un lavoro onesto, si diede alla politica.

Oggi sarebbe come minimo presidente di qualche USL o direttore di rete o di qualche struttura alla RAI o imprenditore sorridente. Allora si dovette accontentare di fare l’assessore in un comune di mille anime. “

“ASSESSORATO ALLA RICERCA SPAZIALE”, mandato inventato da lui. Niente a che vedere con alta tecnologia o spazi siderali.

Il suo compito consisteva nel trovare ALTRO SPAZIO per mettere i fiaschi pieni e le damigiane, che servivano da carburante durante le sedute di giunta.

Non vi era ordinanza che non venisse votata per alzata di gomito.

Era nata “l’ubriachezza politica” tanto cara a Craxi.

Nonno Bachisio era il più importante “sbronzetto nuragico” del mondo.

Gandhi disse “Dopo che sarò morto, crematemi.”

Lui ha riempito la casa di bigliettini:” Dopo che sarò morto (se morirò), DISTILLATEMI”.

 

 

 

INFANZIA DI FRANCESO COSSIGA

 

 

Quando Chicchino nacque in casa non c’era nessuno.

Lo portò un gufo. Non trovando un camino,  lo sganciò vicino al pozzo nero.

Suo padre era al podere. Coltivava una piantagione di ghiaia* (coi cavoli aveva smesso, per paura che sotto qualche ceppo potesse nascergli un figlio). Sua madre era rifugiata da certi parenti, perché non voleva responsabilità.

 

 

 

*Ecco spiegato il mistero dei “sassolini nelle scarpe”.

Quei sassolini Chicchinu li ha sempre avuti e, come si sa, i sassolini nelle scarpe fanno male ai coglioni: certo, perché chi non è coglione SE LI TOGLIE!

E lui ha fatto benissimo a toglierseli.

Avrebbe dovuto cominciare molto prima, ma Andreotti e Craxi erano sempre stati molto evasivi e non gli avevano ancora confermato che lui era veramente il Presidente.

Per cinque anni ha creduto di essere “in prova”.

Ma questa è un’altra storia, di cui vi parlerò più avanti.

Presi da rimorso, i genitori fecero ritorno a casa dopo tre giorni. Trovarono Chicchinu al telefono che chiedeva le loro dimissioni al Telefono Azzuro, ma diceva “ghee-ghee” in sardo e non se ne fece niente.

Per  primi diciotto mesi mio nipote condusse una vita d’inferno. Si andava convincendo di non essere amato da nessuno.

Diceva cose senza senso che non capiva nessuno, quindi, quando diceva “ghee” perché aveva fame, cercavano  in  tutti i modi di farlo dormire; quando diceva “ghee” perché aveva sonno, lo ingozzavano a forza di latte, caglio e carciofi.

Lui, meschinetto, strillava a più non posso e tutti dicevano “Non lo sa nemmeno lui quello che vuole. Lasciatelo perdere.”

Si sentiva solo e  abbandonato. Incompreso. E di notte, ripensando alle traversie quotidiane, versava tutte le sue lacrime e strillava come Sgarbi. Anche perché aveva una fame bestia e nessuno gli dava retta.

Il padre, un lavoratore duro e poco sensibile, soltanto per essere stato svegliato due o trenta volte ogni notte dalle grida parossistiche del piccolo Chicchinu, dopo alcuni mesi, si rivolse alla moglie con tono  poco rassicurante “Fallo stare zitto quell’accidente, sennò te lo rompo!”

A modo suo gli voleva bene.

Per la verità si erano lamentati anche alcuni comitati di quartiere.

In quei giorni, per la prima volta, un certo Giulio Andreotti venne nominato sottosegretario a non so quale Ministero.

La madre di Chicchinu, vedendolo in un cinegiornale, perse il latte e fu costretta  a mandare il piccolino a balia.

Oggi le balie non esistono più. Ed è un bene.

La balia del nostro paese, Assuntina, era un donnone di oltre un quintale che aveva già quattordici figli suoi; tutti avuti dallo stesso uomo, ma non lo aveva mai voluto sposare perché, diceva, non era il suo tipo.

Questo bel tipo era alto un metro e venti, più IVA, e aveva due sole passioni (oltre”quello”): bere vernaccia e fumare “trinciato Italia”.

Tutte le sere andava da Assuntina, ubriaco e puzzolente come una capra, e le montava addosso.

Lei lo lasciava fare, un po’ per timore delle sue reazioni (lui aveva il “ vino cattivo “) un po’ per non perderlo: l’aveva minacciata di fuggire con Brigitte Bardot se non lo avesse soddisfatto.

E i figli continuavano ad arrivare.

Chicchinu miu da quella balia non ci voleva andare. E piangeva. E, appena piangeva, tutti: “il bambino ha fame, portatelo da Assuntina.”

Ma lui piangeva proprio perché non ci voleva andare! Era incompreso già da allora.

Ma come si fa ad attaccarsi a un seno gigantesco puzzolente di “trinciato Italia”?!

Tutti i giorni così. Lo portavano da Assuntina e quella lo ghermiva e gli ficcava in bocca un chilo e otto di tetta tossica.

Morale: oltre che a piangere, Chicchinu miu cominciò anche a tossire.

Una brutta tosse. E catarro. La madre lo portò dal medico: bronchite asmatica. “Ma suo figlio fuma?” chiese il medico. A sei mesi?!

Non bastava la bronchite, gli venne una strana malattia che di solito viene solo alle patate e cominciò a riempirsi tutto di bolle e macchie.

Basta balia.

Dopo una lunga chiacchierata con nonno Bachisio, che la sapeva lunga, fu deciso di fargli cambiare aria e di sottoporlo ad una ferrea dieta a base  di pesce.

L’aria, nonostante tutto, non l’ha cambiata: ancora oggi conserva quella da gufo triste. Il fosforo invece l’ha reso vispo e intelligente come nessuno.

“Fategli succhiare le teste - incitava alla sua maniera naive nonno Bachisio- ché la testa del pesce contiene  forfora.”...

E giù pesce, olio di fegato di merluzzo e spremute di gamberoni, con cioccolato e panna. E aglio, molto aglio, per la circolazione e la pressione.

Suo padre non voleva, però, che il piccolo dormisse in camera con loro. Per via dell’alito. E Chicchinu minacciò di sciogliere la camera.

Il genitore se la legò al dito e ogni sera, quando rientrava dalla sua piantagione di ghiaia, annusava l’aria come un setter. Ma molto più rumorosamente.

“Cos’è questa puzza?” sibilava.

“E ‘ il pupo, ha fatto la cacchina.” minimizzava la moglie.

“Cacchina?! Cacchina, eh?! QUESTA E’ MERDA!!! Altro che “cacchina”!  Il pupo!.. Questo non è un bambino, è un contenitore di merda! Lo accarezzi e “plaft!”... lo dondoli e “plaft!”... Lo guardi e “riplaft!” Ma che cazzo è?! Mangia grazia di Dio e caga merda. E non fa altro in tutto il giorno. E anche di notte ! Mangia, piange e caga! Ma non lo vedi che quando ha finito di “fare la cacchina” è sgonfio?! Una prugna sembra! Eppoi... - in un crescendo rossiniano, l’arcigno genitore, misurava a grandi passi la stanza e roteava i pugni al di sopra della testa, fermandosi di tanto in tanto ad indicare minacciosamente l’oggetto della sua ira. - Eppoi, quando lo devi cambiare, cambialo dalla TUA tua parte del letto! Capito mi hai?! Dalla tua parte! Oppure portalo da tua madre. Filo spinato ci metto sul letto, voglio vedere se oltrepassi il confine. Cacchina!”

Tutti i giorni la stessa storia. Ma a modo suo gli voleva bene.

In occasione di una visita di certi parenti, il padre di Chicchinu, che teneva molto alle apparenze, decise di fare bella figura e pretese di prendere in braccio il pupo.

Non sapendo come funzionasse il “fagottino”, cominciò a passarselo da un ginocchio all’altro, da un braccio all’altro, e su e giù, finché il fantolino non prese a vomitare.

Reazione istantanea: allontanamento, di scatto, del bimbo dai propri pantaloni. Nuca del neonato pericolosamente vicina allo spigolo del tavolo. Urla della madre. Bestemmie del padre. Coro di “ehhh, i bambini, si sa...” dei presenti.

Fine della pax.

Ancora nonno Bachisio. Redarguì  suo figlio, spiegandogli  che tutti i bambini hanno dei rigurgiti, fanno la cacca (prodotto interno lordo, la chiamava lui) e piangono di notte.

“Se lo maltratti ancora, ti spacco la testa in otto parti uguali.” Concluse amorevolmente.

La notte successiva, al primo piantino del bambino, il padre si alzò, lo prese in braccio e cominciò a cantargli un’antica nenia sarda, mentre lo dondolava.

“Su pippìu de sa mamma / an chi fèzzasa sa spràmma / oh, oh, oh...” (Piccolino della mamma/ fai la ninna, fai la nanna/ oh, oh, oh...)

Al terzo “oh” il piccolo si addormentò di colpo.

Anche perché l’astuto  genitore aveva avuto l’accortezza di dondolarlo, tenendogli il capino a meno di un palmo dal muro...

Altre volte, in analoghe circostanze, il bruto lanciava in aria il piccolo, lo riprendeva e lo rilanciava, al grido di “istrullallààààh...”

E Chicchinu passava dal pianto al riso, riso stridulo e nervoso, e dal riso al sonno.

Anche perché tutto questo avveniva in mansarda.

A forza di “toc” e di “sduum” della testolina contro il soffitto basso , anche le rondini e i piccioni abbandonarono i propri nidi...

E venne il periodo delle prime paroline.

Tutti, in tutto il mondo, continuano pedissequemente a disorientare i bambini con una serie di:biru-biri-ba-ba... oppure: ciribiribiripicchio!... che non vogliono dire assolutamente un beneamato cappero.

Anche Chicchinu miu fu vittima di questi attentati, ecco perchè, ancora adesso, stenta a farsi capire dalla gente e viene spesso frainteso.

Prendetevela coi parenti e gli amici.

Tutti a cercare di farlo parlare il più presto  possibile!

Anche suo padre si era accanito in questo esercizio:”Dì babbo. Dài, Checco, dì papà...... E parla, cazzo! Alla tua età io declamavo tutto Gozzano!”

Falso. Sono testimone io. Ha imparato a parlare a otto anni!

Una volta che Chicchinu imparò a parlare, non poteva aprire bocca che il padre, subito: “Stai zitto!” Però, a modo suo, gli voleva bene.

I PRIMI PASSI. Non parliamo di quando, sempre lui, l’orco, cercava di insegnare a camminare al piccolo. Di nascosto.

Chicchinu aveva poco più di sette mesi, un naso da un chilo e un telo da bagno nelle braghe (allora non c’erano i pannolini e Mike Bongiorno si puzzava di fame).

Allora... Il trucido appoggiava mio nipote al muro, si allontanava, si chinava e apriva le braccia:”Corri da papà. Vieni... Su, su...”

Spataplunfete! Tre dentini da latte: adieu...

“Coglione! Alla tua età ero campione sardo dei tremila siepi.”

Manco per  niente. Ha imparato a camminare, con un girello di ulivo, a sette anni suonati!

Una volta  che Chicchinu aveva imparato a camminare speditamente, verso i due anni, e cominciava a trotterellare per tutta la casa: “Stai fermo!”

Chicchinu miu, piccolo frugoletto, è arrivato all’età di dieci anni convinto di chiamarsi “SMETTILA”.

Come ci hanno insegnato i padri della psicanalisi, Freud in testa, il comportamento dei genitori durante l’infanzia dei propri figli lascia sempre una profonda traccia. Il comportamento becero del padre di Francesco Cossiga lo abbiamo già visto in parte, ma è dall’adolescenza alla pubertà del piccolo che egli manifestò tutto il suo sadismo.

Quando Chicchinu frequentava le medie, suo padre gli scriveva proditoriamente sul diario frasi del tipo:” Non sei nessuno” “ Sei un fallito” “ Ti odiano tutti” . Poi si lamentava che il figlio era insicuro e ritardato! Durante un ricovero di mia sorella, qualche anno prima,  il trucido era stato costretto ad accompagnare Chicchinu a scuola ( non era mai voluto uscire col piccolo “ chissà cosa dice la gente!” si scusava); prima di uscire di casa, intimò al figlio “ chiamami zio!” Beh, il giorno trovarono tutti i compagnetti in cortile a godersi il sole. Tutti giocavano e facevano capriole sull’erba. Lui costrinse il piccolo a giocare tra i fichi d’india e a fare le capriole in mezzo alle ortiche: sempre erba è, disse. Poi lo schiavizzava. Lo mandava a fare le commissioni più assurde, per fargli fare figuracce. Lo mandava in posti lontanissimi e gli indicava le strade sbagliate per arrivarci, o i  percorsi più lunghi e tortuosi.

Gli ordinava di comprare: un litro di olio di gomito... trecento lire di ombra di campanile, oppure “ un etto di zampette d’anguilla”... Tutti i bottegai del paese, capito il dramma del bambino, gli davano delle amorevoli botte sulla nuca e lo mandavano in altre botteghe, sempre più lontane:” Noi l’abbiamo terminato, prova da tizio che forse ne ha ancora...”

Poi si giravano dall’altra parte e si piegavano in due dalle risate.

E manate sulla nuca, e botte della testolina  al muro o sul soffitto per farlo addormentare... eppoi dicono che è matto! Non parliamo poi dello scherzo del seggiolone! Quando Chicchinu aveva due anni.  C ‘era molta povertà, a quei tempi,  e il seggiolone per il pupo era stato comprato di ottava mano  da alcuni zingari di passaggio ( la stessa tribù alla quale, pochi mesi dopo, il maligno genitore regalò il cavallo a dondolo di Chicchinu. Con lui sopra!)

In pratica, mio cognato, l’infausto genitore, si alzava di notte e, chiotto chiotto, andava in cucina e segava a ¾ una gamba del seggiolone, già abbastanza malfermo di suo, poi tornava soddisfatto a letto. Il giorno dopo scommetteva con gli amici sull’orario in cui il piccolo si sarebbe schiantato al suolo. Si sedevano tutti di fronte al bambino, a bere, mangiare, e a parlare delle mirabolanti avventure negli ovili, e gli lanciavano contro torsoli di pere, mele, noccioli di pesche... Chicchinu si agitava, cercando di schivare i proiettili, il seggiolone manomesso cedeva e lui si schiantava sul pavimento. Tutti quei colpi alla testolina fecero venire al pupo un’altra malattia strana, che di solito viene solo ai tuberi e alle rape. Durante le vacanze estive, mentre gli altri bambini andavano alle colonie marine o montane, Chicchinu veniva mandato a Vermicino o a Seveso.

A scuola, il suo naso da un chilo venne ripetutamente gonfiato dalle botte dei compagni, presso i quali mio cognato faceva circolare voci calunniose:” Lo sai che mio figlio ha detto che tu sei un po’ femminuccia?...Mio figlio mi ha detto che te le suona quando vuole...” eccetera. Andava a cercare i compagni più grossi e grandicelli di Chicchinu e scatenava la loro rabbia. Poi,quando il piccolo tornava pesto e con la melanzana sanguinante:

“Coglione! Le hai prese ancora. Alla tua età ero campione sardo dei pesi medi! Femminuccia del cazzo!” e giù altre botte. Alla testa. Per  tacere di quando aveva attrezzato una bella altalena in cortile... Chicchinu fu molto felice per il pensiero del padre. Povero ingenuo! L’altalena era a tre metri dal muro della cucina. Già dal giorno dell’inaugurazione, mio cognato fece sedere il figlio e gli diede una sola spinta: corremmo in sette a staccare

Chicchinu dal muro e lo accompagnai personalmente al poliambulatorio.

Tutte le settimane erano tre-quattro giorni di degenza. Anche le comunicazioni della scuola, ormai, gliele mandavano direttamente all’ospedale. Quando mio cognato si prese una brutta influenza e fu costretto a letto per dieci giorni, Chicchinu, senza altalena e spiaccicamenti contro il muro, stava bene. Subito telefonarono dall’ospedale, preoccupatissimi e allarmati:” Come mai non si è visto il piccolo Cossiga questa settimana? Non è che sta bene, eh?!” Questo è stato il padre di Francesco Cossiga: un senzadio barbaro e cinico. Anche se, a modo suo, forse, gli voleva bene. Potrei raccontare ancora tante cose, ma vi cito solo il suo motto prediletto, che racchiude la sua filosofia di vita:” BABBO E’ MORTO, L’ASINA HA PARTORITO: CINQUE ERAVAMO E CINQUE SIAMO”

 

 

LA MADRE

 

 

Contrariamente a tutte le donne sarde, mia sorella si dava del lei col matriarcato e col femminismo. Completamente coartata dal marito, era usa obbedir tacendo e tacendo morir: di dolore, di fame, di umiliazioni...

Ricordo una scena emblematica, indelebile nella mia mente. Quando Chicchinu aveva circa un decinaio di anni, gli occhi grandi come uova al tegame, il naso già da un chilo, le gambe secche secche e le ginocchia grosse come i nodi delle cravatte di Sandro Ciotti, la sua famiglia versava in grave stato di necessità. Il piccolo lo vestivano con gli abiti smessi dai “mustajonis”: gli spaventapasseri. Una sera, il padre di Chicchinu era uscito per la solita partita a “chémin”, dietro l’ovile di un amico, in centro. Il bimbo, povera stella, era seduto al tavolo di cucina impugnando e battendo ritmicamente le posate sul tavolo; molto speranzoso. Sua madre, santa donna, alta, segaligna e vestita di nero, cercava disperatamente di nascondere le lacrime. Evitando di guardarlo, apriva e richiudeva mobiletti e rovistava invano nella vecchia màdia: vuota. Il nulla più desolato. Le ultime due uova le aveva fatte fuori il marito, con  l’ultimo tozzo di pane nero, prima di uscire. Chicchinu continuava  a battere le posate sul tavolo, mandando avanti e indietro i piedini sotto il tavolo e la sedia. Calzava vecchi stivali di gomma più grandi di sei numeri: si sa, i bambini crescono... Sbadigliava apertamente e seguiva con lo sguardo la madre. Lei era una statua di sale. Si mordeva a sangue il labbro inferiore e le tremava il mento. D’improvviso si voltò verso di lui e l’affrontò. Gli occhietti avvizziti e ormai senza più lacrime di lei, contro gli occhioni sgranati, interrogativi, e drammatici del piccolo: roba da “Per un pugno di dollari”. Musica di Morricone. Lei: un fremito incontenibile del  mento, un singhiozzo represso e un gettare la testa all’indietro, una mano sulla fronte a rinfoderare nel fazzoletto nero una ciocca grigia anzitempo, per cercare coraggio e un contegno... Lui: improvvisamente bloccato, ingessato, tratteneva il respiro e presagiva il peggio. Lei, con un filo di voce tremula:

·          Chicchi’... ehm... Chicchinu... dì “merda”.- un tremito la squassava tutta, ma non si mosse di un millimetro.Occhi negli occhi. Un duello infernale. Epico.

Morricone poteva lasciare il posto a Wagner. Lui, meschinetto, era allibito: una parolaccia sulle labbra materne?! Lei, prendendo coraggio, ma la voce era un soffio:

·          Sentito mi hai? Ti ho detto di dire “ merda”-

Chicchinu deglutì rumorosamente, guardò me in modo intellegibile, quindi tornò a fissare la madre e, con compunzione, sussurrò: “Merda”. Lei, con una improvvisa e squarciante voce di testa:

·          Che cos’hai detto?! Ripeti! -  Lui, occhioni bassi e malinconici:” Merda”.

 

.

 

Lei si portò i pugni ai fianchi e prese a scuotere il capo:

·          Ah! Ma bravo! Belle parole che dici! Davanti alla mamma e alla zia... Vergogna! Fila! A letto senza cena! Così impari, brutto ineducato che non sei altro!- le ultime parole erano state sommerse dai suoi stessi singhiozzi e dal pianto accorato del piccolo che correva via. Lei si era accasciata sulla màdia vuota, lasciandosi finalmente andare allo sfogo più completo:

·          Povero figlio...- gemeva - Povero figlio mio...-

Io ero senza parole. Triste e sconcertata. Finii di mangiare la torta gelato che mi ero portata da casa, per merenda, e me ne tornai alla mia villetta. Più tardi, ripensando alla scena, qualche lacrima mi cadde sull’aragosta al gratìn che stavo preparando. Cenai di malavoglia.

 

 

Anni dopo, quando la situazione economica divenne meno drammatica,  mia sorella preparò al piccolo un tipico manicaretto nostrano: “ S’olìa a sa sarda”

( Oliva alla sarda): prese una bella oliva e la mise dentro ad una quaglia, la quaglia la mise dentro ad un tacchino, il tacchino dentro a un maialetto lattonzolo e, infine, il maialetto dentro ad una pecora grassa. Poi andarono sul limitare del bosco vicino e scavarono una grande buca, nel terreno argilloso, la rivestirono di mirto aromatico e vi posarono la pecora così farcita,

quindi ricoprirono con altro mirto ed altra terra la “ tomba del manicaretto”. Andarono a fare legna nel bosco, con la quale fare un bel falò sopra la buca.

( Questo è un antichissimo piatto sardo, detto “ accarraxiàu”= sepolto: i sardi hanno inventato la pentola a pressione seimila anni fa! E’ una prelibatezza super. Passata qualche ora, si scosta la brace, si scopre la “tomba-forno” e si gusta il manicaretto.) Gavino e sua madre hanno provato altre due volte a cucinare questo piatto. Non sono mai riusciti ad assaggiarlo: ogni volta che tornavano con la legna, non si ricordavano più dove avevano sepolto la pecora...

Mia sorella è anche una donna molto cattolica e non ha mai usato contraccettivi. Sostiene:” perchè andare contro i dettàmi del Papa? Quando vuoi fare certe cose con tuo marito e non vuoi bambini, basta mandare i bambini dai nonni.” E’ anche molto filosofa. L’altra sera, si guardava la tv insieme nella mia villa al mare; c’era un servizio sulla fame nel mondo e lei fa:- Ogni giorno muoiono 40mila bambini. Vedi che il Papa ha ragione a proibire gli anticoncezionali? Così ne muoiono 40mila, ma ne nascono 150mila ogni giorno, tiè! -

Io questa filosofia non la capisco, però credo che sia molto profonda.

Vorrei terminare questo capitolo riportando testualmente una letterina, scritta da Chicchinu nei periodi bui, a Gesù Bambino:

 

.

“Caro Gesù Bambino,

 

quest’anno ti voglio chiedere cose da Arcore, anche se so già che sono soltanto sogni e queste cose non le potrò mai avere.

1) Vorrei un paio di calze nuove; di quelle moderne:che hanno anche la punta al posto del buco, l’elastico, e che non si infilano subito tutte dentro gli stivali di gomma. E che non si buchino subito, anche dietro, dopo due o tre anni che le porto.

2)  In casa mia siamo tutti vegetariani, mangiamo radici, perché “FA PIU’ SCENA” dice mio babbo ( la carne la mangia solo lui perchè è ammalato: il dottore ha detto che la sua malattia si chiama “FILL’E BAGASSA”: figlio di donna poco onesta).  Ma io vorrei assaggiare, almeno una volta, una bella bistecca di carne: anche se è peccato mortale e mi potrei ammalare pure io. Eppoi, ho quasi dieci anni!

3) Vorrei un maglione di lana, anche se GIUSTAMENTE, come dice mio babbo, la neve ed il vento freddo del mattino fanno tanto bene alla pelle. Ma la scuola è lontana e io ci vado a piedi, perchè qui in paese non ci sono ancora i taxi ( quando li metteranno, mio babbo ha detto che mi ci manderà. Ogni volta che glielo chiedo, mi ci manda...) Ogni mattina, perdo sempre le prime due ore di lezione: perchè il gelo mi fa sentire un pochettino male e, appena perdo i sensi nel piazzale, mi portano piano piano a Sassari, all’ospedale “SIAMOPIENI”,  in sala rianimazione. Quando non mi fanno entrare al “SIAMOPIENI”, ci tocca andare fino ad Alghero, alla Pia Clinica 

“VATTENEVIA” e allora perdo anche le prime tre ore. Meno male che io imparo subito! Intanto ho imparato a cadere sul naso: così non batto più la testa. Però il naso se ne va su e giù per conto suo e, anche quando una cosa mi piace molto, sembra che faccio lo schizzinoso.

4) Vorrei un albero di Natale di cioccolato, con tante polpette di carne appese

e qualche pollo (anche crudo); e vorrei guarire da questa brutta malattia che mi fa venire voglia di mangiare. Persino di sera! Anche se so benissimo che:

“ Non si dice FAME ma APPETITO e avere una di queste due cose è da maleducati.” come dice mio babbo.

Tanti baci dal tuo amichetto

Francesco Cossiga

 

P.S. Perché, quando dico queste cose alla mia mamma, lei si mette a piangere?

 

 

 

DALLA  SCUOLA  ALLA  PRESIDENZA

 

 

Francesco Cossiga, Chicchìnu miu, è sempre stato coerente e deciso. Quasi quanto Berlusconi, la Maiolo, Michelini, Buttiglione e Pannella. Appena terminata la scuola dell’obbligo e si trovò a dover scegliere un indirizzo di studi, andò dritto come un fuso ad iscriversi all’Istituto per Geometri. Poi a quello per Ragionieri; poi al Nautico;  poi a Danza Classica... poi si prese un esaurimento nervoso e rimase in perenne stato confusionale. Gli venne anche una malattia originale, che di solito colpisce soltanto le carrubbe.

Sua madre lo iscrisse al ginnasio, insieme col suo cuginetto Enrico Berlinguer. Ignorò nonno Bachisio e i suoi ricordi nautici. Tirava una brutta aria in Marina per i Cossiga: durante la guerra, mio padre fece più danni del nemico. Aveva fatto affondare quattro dei nostri sommergibili: si coricava ubriaco e pretendeva di dormire con l’oblò aperto.

Al ginnasio, Chicchìnu  conobbe e frequentò un fascio di compagni oggi eccellenti o ex- eccellenti: l’ex-simbol Lino Jannuzzi, già scopatore di Marina Ripa di Moana ( e basta.), che vendeva a tutti “in esclusiva” i compiti copiati da Biagi; Corrado Carnevale, giudice di sedia al campetto da tennis: siccome i sardi sono velocissimi e non vanno d’accordo nemmeno in due, le partite le giocava sempre uno da solo e questo amico giudice faceva vincere, regolarmente,  la pallina ( quando si dice l’onestà...). Frequentò il rugginoso

Paolo Guzzanti che, non esistendo ancora la Terza Rete Rai, era riuscito a far assumere figli e parenti lontani come presidi e bidelli (familiarmente,  chiamati “bidè”, alla romana o all’amatriciana). Strinse anche di più i rapporti coi cugini Berlinguer e Segni (che negavano di conoscerlo) e cominciò, già da allora, a raccomandare i nipoti Agus, per le recite scolastiche. Ogni settimana, per ritemprarsi dalle fatiche scolastiche, insieme coi suoi amici noleggiavano un pullman ed organizzavano delle gite. Il pullman, guidato da un certo Berlusconu  di Arzachena (parente?), arrivava puntualissimo: certe volte alle cinque, alle cinque e venti, alle sette e dieci... A volte l’autista diceva che era stato frainteso e non arrivava per niente, oppure arrivava e diceva che gli servivano seimila miliardi: i prezzi erano aumentati...

Mai una gita!

Decisero di cercare un altro pullman e si rivolsero ad un olivicoltòre di Ossi, un certo Produ, costui arrivava sempre puntualissimo, alle cinque! Loro arrivavano alla spicciolata, salivano a bordo, e cominciavano a decidere la destinazione. Chi voleva andare di qua, chi voleva andare di là, chi poco poco più a sinistra, chi in fondo a destra... Intanto, mangiavano, bevevano, e votavano. “In caampagna” “ No, al mare” “ Giriamo cento città” “Andiamo dove ci sono le querce” “No, dove ci sono gli ulivi”...

e continuavano a bere e a cantare dei cori stonatissimi. Anche perchè ognuno cantava una canzone diversa. Alle 22, puntualmente, il buon Produ li scaraventava di malagrazia giù dal pullman e ognuno tornava a casa sua.

Tutte le “gite” così.

Non riuscivano ad andare d’accordo. Da giovani.

Segni girava per i locali, beveva, mangiava, diceva: Segni, e se ne andava.

Cossiga era entrato  in  un locale, aveva  bevuto e mangiato, aveva detto :

“segni” e si era preso una botta in testa dal padrone: ”Che cazzo segno?! Chi ti conosce? Paga!” Enrico Berlinguer, pur basso di statura, era sempre all’altezza della situazione e girava a testa alta, perchè era uno benvoluto e rispettato da tutti. Chicchìnu girava a testa alta per scoprire chi cazzo fosse a lanciargli i vasi dai balconi e i gavettoni, ogni volta che usciva.

Invidioso di Enrico, per fargli un dispetto, decise di iscriversi alla DC (le tessere di GLADIO non erano ancora pronte e quelle della P2 andavano via come il pane). Col solito piglio deciso, Chicchìnu si inserì tra i dorotei. Poi decise per i fanfaniani, poi per i morotei, quindi, decisissimo, si attestò coi basisti. Però gli piaceva anche la corrente gavianea. E non aveva neppure niente che non andasse la corrente andreottiana...  Si laureò in meno di quindici anni. Memorabile fu la frase che rivolse a sua madre, in occasione della sua festa di laurea: ”Mamma, in che cos’è che mi sono laureato, ieri?”

E vennero i primi amoraazzi. Mai consumati. Cambiava così spesso i luoghi e gli orari degli appuntamenti, che le ragazza preferivano uscire con qualcun altro. Egli stesso non ricordava mai dove avesse dato gli appuntamenti e non trovava mai nessuno. Intanto però si allenava a baciare. Lo faceva con una di quelle bottiglie di latte dall’imboccatura larga; a volte le riempiva di carne macinata e si produceva in altro tipo di allenamenti...

Un giorno, casualmente, conobbe la moglie in un ascensore che si era guastato.

Per fare carriera, non volendo legarsi alla mafia, come tutti i volenterosi fu costretto ad emigrare. Si  trasferì a Roma. (Lui ha cercato di trasferire prima i vari Ministeri e poi il Quirinale a Sassari, ma non c’è stato verso.)

“Anche il cardinale di Cracovia, per fare il Papa, è dovuto emigrare.” gli hanno detto.

“Ehmbè?! Che sono un semplice Papa, io?” ha risposto. Ogni tanto riaffiora il carattere di suo padre.

Dopo una breve, memorabile, parentesi al ministero degli Interni (qualche maligno disse che avrebbero dovuto internare lui), eccolo finalmente PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!!

Già da Ministro degli Interni ha contribuito a cambiare molto: il colore delle auto della Polizia, per esempio ( “Ha tolto un poco del già scarso verde che c’è nelle città” hanno commentato le solite malelingue). Tutti ad accusarlo ed a manifestargli contro. Fatelo voi! Quant’era malinconico quando fu costretto ad ordinare ai celerini di riporre (o nascondere meglio) i manganelli! Certo! C’erano stati migliaia di operai e studenti con le ossa rotte: teste rotte, braccia e gambe ingessate... ma almeno non si drogavano! Prova tu a farti una pera sul braccio ingessato! Questa era PREVENZIONE! Che fastidio mi dava vedere il nostro cognome scritto su tutti i muri con la “ K”  e le  “SS”

alla Terzo Reich! Va bene che siamo di origine tedesca: von Kossighen, e allora?! Mio nipote parla e straparla in tedesco come in italiano. Invidia?

Se è per questo, parla anche un altro centinaio di lingue. A gesti. E comunqua parla sempre meglio di De Mita ( quanto parla male quello! Parla male di tutti: persino di mio nipote e di Berlusconi...)

Ogni tanto, mi telefona e ricordiamo i bei tempi del Quirinale: specialmente gli ultimi due anni. Quanto gli manca! Che bello, sveglirsi alle quattro e chiamare subito Guzzanti! Certe volte era stanco e allora sbagliava:” Pronto? Sono coso, passami a coso... Il Presidente Cossiga sono, passami Guzzanti, aiò! Come?! In che senso, scusi? Famiglia Merli? E che cosa ci fa lei in casa di Guzzanti a quest’ora?Come?! Sbagliato numero? Io? Ma sbagliato sarà lei! Come?... in che senso? No, lì ci va lei! Maleducato!”  Parlato con Guzzanti, chiamava subito Sgarbi. Non si dicevano nulla per due ore, ma chiudevano felici e contenti. Certe mattine, invece, chiamava Boncompagni. Non col telefono, ma col C.B.” Roger...roger... Andy Capp chiede di entrarre, capitto mi hai? “” Vieni avanti cret... Andy”

“ Roger... Andy Capp sonno. Ma te Gianni sei? Satiro due... Satiro due? Stavo dicendo, no? Scusa il doppio senso, ma te Gianni sei? Di una questionne fondamentalle parlarre ti devvo. Te, brutto maialle, da quando faccevvi il cruciverbone a Domenica in, che mettevi orizzontalli tutte quelle fighette verticcalli, prometti sempre ma non mantieni mai! Mandane qualcunna anche qui. Qui Rinale a voi studio centralle! Ah, ah! Beh, adesso chiudo, chè non devvo farre nulla, sennò faccio tardi. Già ti richiammo. Ciao!”

Verso le sette e mezzo rifornimento di sassolini nelle scarpe, una controllatina al piccòne (c’era sempre un corazziere che glielo indicava, perchè lui non aveva mai visto un picco dal vivo e a volte picconava con una falce...). Altre mattine invitava a colazione qualche amico: Guzzanti, Sgarbi, Jannuzzi o Gelli (uguale), Funari, Cirino Pomicino, Ridge, Dallas, Cip & Ciop... Alle sei del mattino! Questi, in coma, con la cravatta nel caffellatte, gli dicevano sì, sì, e si credevano più intelligenti di lui. Pian piano perse quell’abitudine e anche gli amici. A tutti offriva il pane tipico sardo “ la carta da musica”, ma quelli preferivano la carta di credito e scivolavano verso Craxi. Tanto, a quei tempi, la musica la faceva sempre lui; e senza l’intermediazione di Berlusconi, come adesso. Poi cominciava ad esternare.

A tutte le ore. Sparava anche qualche... cavolata ( scusate), tipo quando disse che “ noi sardi ridiamo dentro”. Sì, è vero, non siamo molto espansivi, ma in quanto a ridere dentro... non lo fa nemmeno Flavio Carboni! L’amico di Gelli, Calvi, Berlusconi e Sindona. Sembra proprio una frase alla Gianni Bella, quello che scrisse l’inno dei carcerati:” Non si può morire dentro”.

Ore 13 pranzo. Da solo. Ogni tanto mi invita, ma io odio le scene isteriche. Vi ricordate? Ogni due minuti minacciava di sciogliere le Camere. A tavola, diventava rosso a macchia di leopardo e strillava:” Io lo sciolgo quando voglio questo cazzo di burro! Io lo sciolgo come mi pare questo nodo alla cravatta!” Poi, meno male, arrivavano Gigi e Andrea, Pippo Franco e  Forattini per scrivergli le nuove battute e, quando erano pronti, veniva Pingitore per fargli la regìa dei nuovi sketch che avrebbe recitato in TV o alle conferenze stampa.

Ore 16 conferenza stampa. Ormai arrivavano sempre meno giornalisti; tutti in ritardo, svogliati, scoglionati. Quarcuno si portava le parole crociate, qualcuno il videogioco tascabile, altri si radevano col rasoio a pile e fischiettavano, mentre Chicchìnu parlava. Non si finiva mai prima delle 18. Andati via i giornalisti ( che si intruppavano all’uscita come se stessero scappando da un incendio, e certe volte qualcuno si faceva pure male), il Presidente cominciava a fare le sue telefonate private. Retaggio paterno: cambiava voce e seminava zizzania, chiamava Craxi e lo faceva litigare con De Mita; Chiamava Spadolini e lo metteva contro Cirino Pomicino... Poi lo sgamarono e dovette smettere.

Ore 20,10 si sedeva davanti alla Tv a vedere le sue partecipazioni speciali a Blob. Cenava da solo, mestamente, si guardava nei TG, nelle apparizioni a reti unificate. Se non gli avevano dedicato abbastanza spazio, metteva su una cassetta dove c’era solo lui e si applaudiva, sbandierava, saltava, faceva la ola con l’accendino.

Ore 24 pigiama con le paperette, pancerina, fascette elastiche del Dr. Gibaud, poi si inginocchiava per le preghierine. Lassù si voltavano dall’altra parte, chiedeva sempre le stesse cose: più potere, più considerazione, più rispetto, meno tic... Quindi si abbracciava stretto stretto il cinghialetto di pelouche, guardava il ritratto di Pertini, che era l’unico ormai che lo stava a sentire, dall’alto della sua cornice, e gli diceva:

·          Caro Sandro, fatta te l’ho! Sonno diventatto più poppollare di te. La gente, anche se la chiamo “comune”, benne mi vuole. Beh, ciau e buon etterno ripposo. -

In effetti, e non perchè sono sua zia, Chicchinu è stato più popolare di Pertini.

Anche perchè era a tutte le ore in televisione, come Berlusconi adesso. E, come Berlusconi, parlava solo lui. (Non è nemmeno vero che con la moglie non si parlano, è che lei non vuole interromperlo. Da quarant’anni!)

Pertini andava in televisione all’alba: vi ricordate Vermicino? Eppoi, Chicchinu è più tempista. Pertini andava sul luogo delle disgrazie DOPO che queste erano successe. Chicchìnu arriva sempre PRIMA che succedano! Nooo?!

Diventa ministro degli Interni e subito rapiscono e uccidono Moro. Da Presidente, va in visita ufficiale a New York e il giorno dopo ci fu il crollo di Wall Street; si sposta a S.Francisco e, appena riparte lui: BRUUUM!!! il terremoto; va a Huston a vedere la partenza dello Shuttle: avarìa e la navetta non decolla. Se ne torna disgustato in Italia, mentre gli americani si sfregno le mani e altro... Viene in vacanza in Sardegna e scoppia un incendio globale, appena lui riparte per Roma. Va in visita ufficiale in Inghilterra, saluta la Tatcher: una settimana dopo, quella perde le elezioni e sparisce.  Va a Berlino e crolla un muro... ma tanto era vecchio e anacronistico. Andate a rileggervi i giornali: E’ TUTTO VERO!!! Che poi, Chicchìnu miu, era preveggente, altro che Silvan! Vi ricordate di quando ha esternato il dubbio:

“ Ma, in caso di guerra, chi comanda? Io o il Presidente del Consiglio?”

E tutti a dire “ Ma sei scemo?! Ma quale guerra? Sono 45 anni che non ci sono guerre qui...” E non ti salta fuori Saddam Hussein?!

 

La verità è che mio nipote è stato veramente un uomo di Stato. E quando succedeva qualche disgrazia era perchè lui c’era STATO...  Certo, faceva anche qualche gaffe. Mi ricordo di quando Emilio Fede aveva i suoi orgasmi, durante la guerra del golfo, che morirono anche alcuni militari italiani, ma i piloti prigionieri Cocciolone e quell’altro tornarono salvi e Chicchìnu gli ricevette al Quirinale. C’ero anch’io. Mio nipote ebbe poco tatto, perchè, abbracciando i due piloti, gridò: ”CHI NON MUORE SI RIVEDDE!”

 

Povero Chicchinu miu! Quanto gliene hanno dette: “Parla troppo. Parla di tutto e non sa niente. Parla di niente perchè è l’unica cosa di cui sa tutto. Parlasse delle cose che sa su Gladio, la P2, Moro, i servizi deviati, le stragi...”

La verità è che, da quando non è più Presidente, sembra il buon samaritano: ha cercato di salvare il culo ad Andreotti, nominandolo senatore a vita; è andato a fare visita a Craxi, al Raphael, per solidarietà e per festeggiare il voto compatto del vecchio parlamento contro l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti: hanno brindato con Berlusconi, Ferrara e Intini e poi  l’hanno aiutato a fare le valige...

Adesso è amico di Fini, Di Pietro e Berlusconi: sentirete ancora parlare di lui.

Anche se: dagli amici mi guardi Iddìo...

Prima di chiudere, voglio fare le ultime precisazioni: non è vero che se verrà rieletto Presidente (come vogliono i suoi amici), i tiratori scelti dei NOCS hanno l’ordine di sparargli a vista.

Non è vero che, da piccolo, quando giocava a nascondino coi compagnetti, una volta è rimasto per sette giorni e sette notti nascosto dietro un cespuglio: perchè NESSUNO  si era sognato di andarlo a cercare!

Non è vero che è permaloso.

Non è vero che è lunatico, come dice Montanelli.

Se avesse degli amici veri, ve lo potrebbero confermare.

E comunque, se non ce la fa a tornare al Quirinale, può sempre diventare Presidente Onorario de SU POPULU SARDU.

 

 

 

Tutto questo per ristabilire un minimo di verità (e per dimostrare che sono più brava a scrivere di quella smorfiosa di Grazia Deledda).

Con affetto da zia Peppa

Capitolo secondo

 

SILVIO BERLUSCONI

 

 

Secondo il Collodi, che  ha raccontato le sue avventure, Silvio Berlusconi nasce in Brianza circondato da mobilieri. Nasce già calvo, con la testa a forma di supposta, ed un culo così (e ancora non aveva avuto rapporti col pool di Borrelli!).  Suo padre Geppetto, umile ma onesto falegname,  lo inquadra subito e decide di disfarsene, scaraventandolo nottetempo nel ventre di una balena bianca ( madre di certi Arnaldo e Giulio) che stanziava nell’idroscalo di Milano. La balena, che non era scema, lo risputò subito. Così il povero falegname fu costretto a riportarsi indietro quel fagottino pieno di alghe e gamberetti asfittici. Sulla strada del ritorno, lo mollò davanti al portone di un un convento di suore.

Da qui tutte quelle “zie pie”. Le suore lo inquadrarono subito e lo mollarono ad una agiata famiglia di stronzi, che lo inquadrarono subito e proprio per questo decisero di tenerlo.Lo viziarono in maniera schifosa: 15 megaculle, di cui sei in Sardegna. Pannolini tagliati da Caraceni. Un’orchestra da camera che veniva tutte le sere da Lucerna, per la ninna nanna... A un anno, aveva orchestra da camera, camera, e telecamera personale. Il piccolo Silvio cresceva, solo di età, ed era molto vispo. Imparò subito a smentirsi e poi piano piano imparò anche a parlare. La sua prima parolina fu MIO, la seconda TUTTO, la terza COMPLOTTO, poi RIBALTONE , SONO INNOCENTE, LO GIURO SULLA TESTA DEI FIGLI( tanto non sono miei), e così via.

Intorno ai sei anni cominciò ad andare a scuola. Contrariamente agli altri bambini, lui si presentava davanti ai portoni delle elementari alle cinque del mattino: dormiva pochissimo ed era fissato con le lezioni anticipate.

Studiava con buona lena, ma soprattutto coi suoi  maestri preferiti, “il Piccolo e il Grande  Maestro” li chiamavano. Il piccolo sembrava tale perchè era gobbo. Soffriva di amnesie, questo glielo rendeva più simpatico ed era sempre pronto a difenderlo  dalle malignità dei suoi compagni, i quali dicevano che quella del maestro, più che una gobba era una cupola. Silvio amava il Piccolo Maestro anche perchè parlava poco, era sempre intento a scrivere: articoli, libri, memorie difensive.. Eppoi, sembrava nato in un’aula, da un’aula, per l’aula. Se volevi pesci dovevi cercare nell’acqua, così come il luogo naturale per il Piccolo Maestro era l’aula. La cosa curiosa era che, anche se conosciuto come “Piccolo Maestro”, egli per età e spessore veniva reputato un “Grande Vecchio”. Soprattutto in un certo tipo di Aule.

Ma Silvio amava ancor di più il Grande Maestro, un simpatico toscanaccio che aveva la mania degli scherzi. A volte, si presentava travestito da tipico muratore: cappuccio, grembiule, compasso e tutto il resto. Più che amarlo, lo venerava proprio. Il Grande Maestro aveva anche il vezzo di donare delle speciali tessere di merito ai discepoli più diligenti. Silvio ne fece incetta, per sé e per i suoi amichetti. Ma chi erano i suoi amichetti? Uno era uno spilungone particolarmente fedele, tant’è che si chiamava Giovanni, ma lui lo chiamava proprio Fedele. Come il suo cane. E come un vecchio cameriere che raccoglierà, molti anni dopo, e lo accudirà amorevolmente. Questo cameriere, uno spilungone siciliano,  era stato già al servizio di numerosi altri potenti. Patologicamente, come vedeva un potente si scaravantava ai suoi piedi. Lingua a smeriglio, fiera espressione ebete, con Silvio si superò: agli altri padroni portava semplicemente cappuccino e giornale, a Silvio portava addirittura cappuccio, grembiulino,  e telegiornale.

E lui, per ripagarlo, anzichè Fedele lo chiamava col diminutivo affettuoso di Fede ( era l’unica cosa che poteva diminuirgli in un contesto da subumano già ridotto ai minimi termini). Inoltre, divideva con lui il fard, la tintura per capelli, e le pernacchie che si levavano alte dal paese.

Ma torniamo all’infanzia e agli amici di allora.

Silvio, fin da piccolo e forse proprio per gli oscuri natali,  ha sempre amato molto la famiglia. In tutti i sensi. I suoi amici facevano parte della famiglia.

Dieci amici formavano una decina. Se gli serviva una commissione, mandava i suoi amici e gli amici degli amici: il mandamento, appunto.

Fedele gli portava i libri. Sempre. Anche più tardi. Anche se qualcun altro, non proprio amico, si faceva avanti per portare lui i libri, magari in tribunale, Fedele si impuntava e teneva i libri ben stretti o li nascondeva. Magari all’estero. Un altro amichetto stretto era uno spilungone di  emigrato romano, si chiamava Cesarone. Con lui organizzarono un esilarante scherzo ai danni di una piccola orfanella: uno la faceva piangere e, mentre lei era distratta, l’altro le portava via tutto, le casette di Barbie, terreni, pinacoteche, tutto!Poi dividevano in due parti uguali, che si prendeva Silvio.

Ma Cesarone riusciva a fare la cresta e rubacchiava qualcosa anche per sè.

L’amico più importante era però Bettino, loro lo chiamavano Bottino( perché era cicciottello).

Il suo vero nome era Benedetto, ma nessuno lo trovava attinente.

Tranne, forse, le piccole ballerine Anja, Sandrina, Ilaria, i nani, e gli yuppies degli  anni ‘80. Lo spilungone Bettino era un vero mago e trasformava la merda in oro, aree agricole o demaniali in aree fabbricabili e giù lavoro per muratori e muratorini!

Trasformava le banche in istituti di beneficenza per gli amici e l’etere in soldi;gli sciocchi in miliardari e i deficienti in direttori generali; i madonnari in architetti e le mignotte e i ritardati mentali in star della TV. Tutto quello che toccava diventava oro, in lingotti e no, e divideva tutto in tante parti uguali. Che si prendeva lui.

Ma Silvio era astuto e riuscì a raschiare non poco.

Anche se i suoi poteri erano a tempo, e si è visto, Bettino come Aladino aveva una lampada, e sfregava e fregava e sfregava... FLOP! Ad Aladino compariva un Genio, a lui uno scemo: LO SCEMO DELLA LAMPADA.

Ma lui lo chiamava Ugo. E Ugo portava il Suo Verbo e le sue zoccole in giro per le televisioni e la stampa, mentre il suo padrone portava il Paese alla rovina, i miliardi all’estero,  e le chiappe ad Hammamet.

Il tempo scorreva spensierato. Anche se a Silvio vennero delle impressionanti emorroidi, incurabili e dolorosissime, che gli facevano fare continuamente delle orribili smorfie a mo’ di satanici sorrisi. Diventò da allora un caso umano. Un medico, fratello del Signor No, che non essendo amico di Mike Bongiorno veniva chiamato semplicemente Signore, gli spalmava giornalmente un costosissimo unguento oleoso sul malloppo sanguinolento.

Di questo ebbe a vantarsi, molti anni dopo, dicendo di essere stato “unto dal Signore”. Vero!

A scuola prese tanti bei voti, sebbene  molto più bassi rispetto ai suoi sondaggi, che però non bastarono per la promozione  ed il padre adottivo fu costretto a comprargli la Licenza Elementare.

Al ginnasio, sempre con gli stessi amici, si candidò come capoclasse e vinse.

Subito cercò di annettersi altre classi e persino altri Istituti.

A comandare sul serio era però un lugubre spilungone che sedeva nell’ultimo banco a destra. Ma Silvio, abile già da allora nel lanciare il sasso e nascondere la mano, fece di tutto per far litigare lo spilungone Gianfranco col Preside. Prima lo mise contro un suo vicino di banco e alleato di Gemonio, un altro spilungone brufoloso di nome Umberto: Silvio faceva i casini e dava le colpe agli altri. Classico. Intanto, le emorroidi continuavano a martoriarlo. E lui “sorrideva”. Che cazzo ci avrà da ridere?! Pensava la gente.

Come capoclasse durò molto poco, ma abbastanza per mettere l’intera scolaresca in una difficilissima situazione: quasi allo sfascio,  poco amata e derisa dalle classi vicine e dagli altri Istituti.

Al suo posto venne nominato uno spilungone, serio e taciturno, che girava sempre con una calcolatrice. Un certo Lamberto. Silvio non demordeva.

La colpa dei suoi disastri, comunque la dava agli altri. Se la prendeva con tutti: professori  comunisti, Preside, Consiglio Scolastico, Provveditore...

Invocava a gran voce nuove consultazioni e l’elezione diretta, a turno unico, del Preside. Minacciò di portare la sua gente in piazza, ma l’unica piazza che aveva era sulla sua testa. E la sua gente stava all’Ucciardone e all’Asinara.

E  tutti gli dicevano, sì, sì, e lo lasciavano cantare.

Nel contempo, aveva iniziato a ripulire figurine sporche provenienti da loschi traffici... E a scrivere libri. Anzi, libretti. Al portatore. Cose di “famiglia”.

Il tempo passava e tutti crescevano. Tranne lui.

Suo padre dovette comprargli anche la maturità. Come premio, gli regalò anche una squadra di calcio (torneo dei bar). In effetti, Silvio, più che per lo studio, si sentiva portato per lo stadio. Provò a giocare anche lui. Amava scendere in campo. Amava il profumo dell’erba. Anche se, pur essendo vagamente razzista, preferiva il marocchino o il libanese in panetti.

Fece solo una partita e ne prese tante, ma tante, che dovette abbandonare al secondo minuto. Lo picchiò persino l’arbitro: uno spilungone di Novara, che aveva la erre moscia, ma le mani durissime.

Non era molto amato, nonostante i sondaggi.

Si iscrisse all’università e i docenti ancora ne ridono. Comprò qualche esame in proprio, visto che suo padre era venuto a mancare, e visse felice da fuori corso. Si fidanzò con una spilungona e, scoperto che il padre di lei era pieno di terreni agricoli nei dintorni di Milano, telefonò a Bettino per la solita magìa ( agricolo=edificabile) e la sposò. Intanto, alla compagnia si erano aggiunti due spilungoni siciliani, Marcello e suo fratello Alberto, che avevano portato con loro un sacco di amici e amici degli amici. In mezzo a tanta gente che levava gli occhi al cielo e non parlava neanche sotto tortura, Silvio si decise a cantare almeno lui.

Formò un’orhestrina dove lui suonava il pianoforte e cantava ( lui pestava sui tasti bianchi, Gianfranco e “Er Pecora” pestavano i neri). I locali dove si esibiva, si riconoscevano dai tavoli vuoti e dal famoso cartello:

“ NON SPERATE SUL PIANISTA”. Ma lui sorrideva...

Questa dei cartelli era una sua ossessione. Già da ragazzo, mentre studiava piano a scuola e pianoforte a casa, costretta dalle lamentele dei vicini, sua madre aveva esposto un cartello alla finestra: “ VENDESI PIANOFORTE”.

Cinque minuti dopo, tutte le finestre del vicinato erano tappezzate da cartelli:

“ ERA ORA!”, “ MENO MALE!”, “ L’HAI CAPITA!”. Comunisti di merda, fu il suo commento.

Tra una cantatina e l’altra, tra una magìa di Bottino e l’altra, Silvio, sempre sorridente, si era fatto fare una procura in bianco da suo suocero  per tutti quei terreni agricoli. Appena costruita Milano Due, intestò tutto a proprio nome, uscì un attimo per comprare del fondotinta e non tornò mai più.

Così, il giovane figlio del vecchio Geppetto, si trovò giovanissimo ad essere benestante. E sorridente. Il suo padre spirituale Don “budget” Bozzo (un prete ricco di umanità e di conti in banca) lo perdonò. Fu l’unica assoluzione della sua vita. Con l’amico Cesarone, visto che c’era, ripetè lo scherzo dell’orfanella e si cuccò la reggia di Arcore  e tutto il resto. Come si dice?

AR  CORE NON SI COMANDA... Ad Arcore sì.

A fine anni settanta, Bottino e Silvio, con l’aiuto del vecchio ma arzillo Grande Maestro e di alcuni amici siciliani, fanno la magìa più grande di tutte e si ritrovano, oplà! ricchissimi da un giorno all’altro.

Oltre alle emorroidi, Silvio, sempre sorridente, viene colpito da un’altra gravissima malattia: oniomania, dice il medico.

Comincia a comprare tutto, ma proprio tutto! Soprattutto televisioni.

E intanto, sorride e canta:” Mammì, Mammì, Mammì / quaranta dì quaranta not “. E Borrelli in controcanto:” a San Vittur a ciapà i bot”...

Al contrario di quello spilungone di Bettino prima maniera, però,  Silvio ottiene l’effetto contrario: tocca l’oro e questo diventa merda.

Nonostante le migliaia di miliardi che i suoi amici e gli amici degli amici gli hanno fatto trovare sotto gli alberi di Natale in Belgio e in Svizzera, là si usa, e nonostante i Presidenti delle banche italiane ( messi lì da Bettino ) gli continuino a “prestare” altre migliaia di miliardi senza garanzie: mica sono usurai... Beh, gli affari non è che vadano proprio bene bene. Anzi!

Debiti con le banche, debiti coi fornitori, debiti coi collaboratori e dipendenti...

E tutto senza la minima concorrenza! Cioè: il padrone di un monopolio assoluto, protetto dal governo, che riesce a fallire!(Perchè se soltanto le banche gli chiedessero di rientrare, questo è.)

Insomma, se questo è un grande imprenditore, allora Liguori è un giornalista e Sgarbi è un uomo!

“ Si è fatto da sè, perchè Dio si è vergognato di fare uno così.”

Dicono i maligni.

 

Ma veniamo ai giorni nostri. Sì, per carità, abita in  ville enormi, viaggia con l’aereo personale (anche dentro casa), dice di scoparsi le meglio fighe...

Ma dice anche un sacco di altre cazzate.

La verità è che continua a sorridere e noi sappiamo perchè ( anche la jena, poveraccia, ride);  però, se venisse sottoposto alla MACCHINA DELLA VERITA’, questa riderebbe più di lui!

Con l’allontanarsi di  Bottino e l’avvicinarsi di Di Pietro, bisognava muovere il culo. Altro che cazzi! Quindi, un anno prima di “scendere in campo”, comincia a costruire Forza Italia. E comincia a rubare già dal nome: era della DC!

Ovviamente, giura e spergiura che lui non scenderà mai in politica. Gli basta conoscere gente ammanigliata ( ammanettata?) molto in alto.

Ma perchè aspettare? I soldi ci sono, gli uomini pure, tutti provenienti dallo stesso serbatoio CAF. “Abbiamo uomini e mezzi!” strilla, trionfante. Poi si scoprirà subito che erano solo “ mezzi uomini”. Battezza le sue centurie

“AZZURRI”, anche se, conoscendoli meglio, “ MARRONI” sarebbe stato più azzeccato. Senza offesa per la cacca. E finalmente, confortato dai sondaggi di un giovane “fratello”, muratorino di Macomer e già domestico dell’on. Nonne, PSI, uno spilungone di un metro e sessanta, che fa miracoli col computer: i famosi MIRACOLI DI PADRE PILO,  si parte!!! E senza parlare mai di politica, vendendo spot e sogni, vince le elezioni.

Adora “Uniplus” Pilo e gli invidia la maestria al computer. Lui è negato.

Silvio è l’unica persona al mondo capace di schiantare il proprio personal computer, con la semplice pressione di un tasto. Come?  Data la delirante megalomania, titola qualunque documento col proprio nome e cognome.

Il PC vede sul suo schermo SILVIO BERLUSCONI e, appena il padrone gli impartisce l’ordine

“ SALVA”, quello piuttosto esplode.

Ha una sua dignità il computer, mica è Giuliano Ferrara!

Eppure, lui sorride e dice “ Mi conscienta”. Ancora?! ‘azz! Dopo che gli è stato consentito tutto e più di tutto?!

Dicono che è un venditore di fumo... Per me, lo compra il fumo, se non trova di meglio! Comunque, sparando un mare di coglionate da venditore ambulante, vince le elezioni ( con sei milioni di voti in meno dei “comunisti”).

“ Un milione di posti di lavoro!” e si perde subito persino il suo da Presidente del Consiglio, mentre i disoccupati aumentano di mezzo milione.

“ Niente tasse.” E giù la lira a picco come il pisello di Formigoni e la Borsa

( -34%) tocca il fondo come il giornalismo di Fede e Liguori.

E lui sorride, manda in giro cassette precotte, ruba il fard alla moglie, e minaccia:” Vi abbraccio tutti”. Arrivano i G7 a Napoli e lui parla, per due giorni, col pisello di quello spilungone di Clinton ( più su non arriva), e dice le solite cazzate. Per  fortuna, oltre a maltrattare l’italiano (Ah! I titoli di studio comprati...), non mastica una parola d’inglese, quindi Clinton al suo:” Aiem veri content, bebi ailoviù, plisdongò, obladì obladà...” capisce che è un povero scemo e lo lascia perdere. Meglio continuare a flirtare con Veronica.

Certo, ha avuto delle giornate stressanti, Silvio. Nottate ancora peggiori.

Provate voi a dormire due ore e mezzo-tre per notte, con tutte quelle belle gnocche che bisogna scopare.  Sono tutte giovani promesse dello spettacolo. E le promesse... almeno “quelle” promesse, bisogna mantenerle.

Ma mica solo mantenerle! Bisogna approfittarne! Una bottarella...

Quindi, solito copione: sorriso perenne, stop accesi( nelle mutande) ma lei non lo sa, occhio languido sotto il rimmel, buon cibo, champagne ancora migliore:”  Ti ho vista in bassa frequenza. Lo sciai che hai della stoffa, bebi? Troppa. Perchè non te la levi? Dài, sbarbina, mi conscienta, vieni qui sul sofà. Mettiti a mio agio.” Poi finisce come sempre: “Ma... Non capisco cosa mi sia successo... Forse è colpa dello stress... Ti giuro sulla testa dei miei figli ( e quelli, giù a toccarsi le palle, fissi), è la prima volta che...che... Di solito sono un toro. Ohè, mi raccomando, che non lo sappia Fini! O peggio ancora BOSSI!!! Guai! Se mantieni il segreto, ti faccio fare uno show in TV e del cinema... Ti faccio fare una serie di film.” Sempre così.

E paga pegno davvero. E il cinema italiano muore, la TV manda in onda spazzatura, e noi ci chiediamo perchè. E la mattina, come se niente fosse, giù riunioni col polo. Anzi: Polo delle libertà (vigilate), delle solidarietà, del liberalismo, del garantismo, del buongoverno (degli altri),del sapone Asborno, bombole e lana d’acciaio…

Bisogna attaccare Scalfaro e, per non sbagliare, anche Scalfari; e bisogna assolutamente impedire che i giudici scoprano i nostri giochetti, passati e presenti, e i giochetti dei comparuzzi del nostro zoccolo duro CAF-P2-etc.

E quindi, delegittimare! Giudici assassini! Toghe rosse!Arrestano mio fratello Paolo- Abele? A morte Di Pietro! Borrelli comunista! Golpe!

Poi bisogna bonificare la RAI, le banche, gli Enti, i giornali...”Abbiamo tutta la stampa vera...ehm, comunista, contro!” Non dice che lui ha tre giornali di merda che non compra nessuno! Invece di far rinchiudere i suoi scribacchini incapaci, chiude i giornali. E sorride. E si riempie di cerone color cacca. E le mani biancheee, da salma. Come Fede.

All’estero si chiedono: che garanzie politiche può dare uno che passa due ore a truccarsi, due ore con Previti-Ferrara-Gasparri-Biondi a preparare un discorso sottovuoto in cassetta, un’ora per registrare, un’ora a spedire cassette alle tivvu e le successive QUINDICI ore a smentire quello che ha appena detto nelle cassette suddette? Ma all’estero, si sa, sono tutti comunisti.”Per contare di più in Europa!” Non se lo caga nessuno!!! Anzi!

E intanto, padre Pilo continua a fare i suoi sondaggi:” Lei preferisce Berlusconi o schiantarsi con la macchina contro il Pendolino lanciato?”

E Silvio vince nei sondaggi e sorride. E va in TV a tutte le ore a dire che lui vuole solo il bene del suo paese. E non dice che il suo paese è Arcore.

E dice sempre “ La gente è con me” e si convince di avere 57 milioni di dipendenti. Ma ha  solo 13 milioni scarsi di voti... Gli altri cosa fa, li licenzia?

E quello spilungone di Sgarbi, da Canale 5, continua con le sue dotte citazioni:” Borrelli assassino, ti faccio un culo così! Pivetti lurida troia, schifosa komeinista del cazzo! - e, per la par condicio:- Bossi se l’è presa nel culo!”

E Silvio si gratta il culo e ride. E si trucca e quando ha finito di truccarsi l’immensa casa sembra molto, ma mooolto, più piccola.

E i primi tempi di Montecitorio? Ogni volta che lo incontrava, con chili di fondotinta abbronzante in faccia, “Er pecora” lo scambiava per un extracomunitario infiltrato e giù!.. cazzotti!

E meno male che è caduto! Forse era troppo unto ed è scivolato.

Sennò, con questa mania dell’elezione diretta, del plebiscito, avendo ancora in mano tutti i media televisivi, sai che pacchia!

Silvio-ridens, non ha fatto in tempo a battere la dentiera giù dallo scranno presidenziale, che ha cominciato subito a strillare come un’aquila:” Elezioni! Elezioni!!! Voglio la data! La data”!

Appena gli hanno confermato la data, ha cominciato a strillare:” A che ora?! A che ora?!”

Era convinto di vincere ancora le elezioni, almeno quanto è convinto di essere un imprenditore! Ha raccolto i vecchi craxiani che sono sfuggiti a Di Pietro: Boniver, Manca, De Michelis, La Ganga. Quelli che si chiamavano “NON MOLLARE... il malloppo”. Adesso si chiamano “SINISTRA DELLA LIBERTA’ condizionale o su cauzione”. Si è comprato i fuoriusciti dalla Lega. A dicembre ‘95, Bossi era giustamente preoccupato e disse a Maroni:” Bobo, ocio che il Berluskaiser  sta comprando i nostri. Se continua così, alla Lega restiamo solo io e te.”

E Maroni, perfido:” Tu e... chi?” Poi il cavaliere ha fatto il tirchio e Bobo è tornato tra i verdi; che sanno di dollari.

Il guaio è che, senza una legge antitrust ed una legge elettorale seria, con pesi e contrappesi, il sodale di Bottino: grazie ai voti dei malavitosi, di quelli che non vogliono pagare le tasse, di quelli che non hanno mai letto un giornale  e  se regali loro un libro si scocciano: “ Un altro libro?! Ma ce l’ho già uno!”, grazie a quelle milionate di spettatori ebeti di Castagna-Funari-Dallas, etc. magari torna a fare il Presidente del Consiglio!

E siccome questa volta sarebbe più forte di prima, molto più forte, non si accontenterà e vorrà essere Imperatore. E vorrà la sua faccia sui francobolli.

E l’otterrà. E chi cazzo glielo spiegherà alla gente che bisognerà sputare dietro, sennò... quando s’attaccano i francobolli?! Voleva fare un contratto con gli italiani, chi glielo scrive? Lucignolo? Il gatto e la volpe? Dice che venderà le sue tre televisioni... E chi gliela compra la RAI?! Giura di non dire mai più bugie,( ma lui le chiama: sonostatofrainteso) com’è vero che si chiama Sergio Cuccureddu… E’ entrato nella Bicamerale per azzerare sì i magistrati, ma soprattutto per entrare in Europa: non vede l’ora che arrivi la moneta unica, perché è convinto che se la prenderà lui…

Povero Geppetto. Poveri noi. Povera Italia.

 

 

 

N.B. Questo rcconto è tutto falso, l’ha scritto qualche fottuto comunista.

Avrei dovuto scriverlo io, ma sono arrivata tardi perchè stavo finendo di lavare gli elicotteri di mio nipote. Comunque è tutto falso e se Silvio avesse degli amici, ve lo potrebbero dire anche loro.

Bastardi!

 

Firmato

Una delle settantasette zie di Silvio.

 

 

 

 

 

 

Capitolo terzo

 

EMILIO  FEDE

 

 

Tutti dicono che è un “servo sciocco “, ma io non penso che sia sciocco.

Emilio Fede non nasce come vorrebbero i maligni  in Serbia o a Lecco, ma in Sicilia. Figlio d’arte: sua madre domestica e suo padre valletto in un programma televisivo ( in una tv locale di Pippo Baudo, naturalmente. Pippo già a tre  anni poteva di tutto e di più). Emilio, precocissimo, già in occasione del proprio battesimo pretende di SERVIRE messa. Si becca subito una papagna dal parroco, che aveva mani grandi come palazzi (gli prendeva la misura per i guanti un geometra del vicinato e doveva comprare la pelle o la lana a ettari). Emilio frequenta le elementari in Sicilia e diventa subito una celebrità: sa tutto sui servi della gleba e porta la cartella a tutti i suoi compagni ( ancora oggi, da come agita le mani, si notano i guasti degli antichi sforzi). Viene soprannominato “ sciarpetta “, per via della lingua sempre al vento, pronta all’uso. I maestri andavano blanditi. Tutti dicevano “bacio le mani”, lui brevettò “ bacio il culo”. A otto anni fa la Cresima e i suoi lo vestono da cameriere: pantaloni lunghi neri, giacca bianca, camicia bianca e papillon nero. Un segno del destino. Anche in quell’occasione pretese di servire lui la messa. Fu talmente insistente e petulante che la papagna del vescovo fu indimenticabile e superò in potenza quella battesimale del parroco: forse per via dell’anello vescovile. Ancora oggi Emilio sorride di sghembo, per via della mascella spostata. Subito dopo la cerimonia sacra, però, gli venne consentito di servire il caffellatte e le gallette a tutti i suoi compagni seduti ad una grande tavolata, nel salone parrocchiale. Emilio toccò il cielo con un dito. A sera, mascella gonfia per il “tocco” divino e piedi gonfi per il gran scarpinare, si addormentò stanco ma felice. Con la scuola andavano spesso a teatro. Lui non capiva granchè e si annoiava. Tifava per i servi di scena e le maschere che tagliavano i biglietti. Finalmente arrivò Strehler in tournée col suo cavallo di battaglia:” Arlecchino, servitore  di due padroni”. Per Emilio fu una rivelazione. Tornò otto volte a vederlo. Anche se odiò Arlecchino per la sua improntitudine. Al liceo si appassionò alla letteratura italiana:” Ahi servo Italia di dolore ostello” ( Dante) - “ Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio” (Manzoni). A diciotto anni cominciò a scrivere sul giornale locale. Si prese una tremenda papagna da suo padre, perchè il giornale era il suo e così, tutto scarabocchiato, non riusciva a leggere una mazza. A diciannove anni arrivò la pubertà e il giovane Emilio cominciò a correre appresso a tutte le gonnelle.  I fattorini dei negozi di abbigliamento si stufarono presto di avere quel deficiente sempre tra i piedi e lo riempirono di callose papagne. Allora lui smise di importunare gli onesti lavoratori, anche perchè un suo compagno di scuola gli spiegò che sì, andava bene correre dietro alle gonnelle, ma dentro ci doveva essere qualche ragazza, sennò non aveva senso. Emilio capì al volo ma fu sfigato: era sopraggiunta la moda delle donne in pantaloni! Ripiegò sull’impegno civile.

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Fu il promotore di una memorabile marcia, e l’unico a sfilare, in favore delle servitù militari in Sicilia. Venne inseguito e malmenato da un gruppo di separatisti. Rientrato malconcio a casa, si rinchiuse in bagno e, guardandosi allo specchio, ebbe un’altra folgorazione: i capelli corvini e gli occhi neri (e pesti), contrastavano col naso gonfio e rosso come un peperone... Rouge et noir! Divenne schiavo del gioco.

Giocava per ore col suo pistolino (una volta fu persino sorpreso e cacciato dalla processione del Corpus Domini). Giocava coi bottoni, colle monetine e coi giornaletti: perdeva sempre. Ma non se la prendeva, gli dava più fastidio essere deriso dai suoi compagni di giochi, tutti intorno ai sette anni, che lo mortificavano anche con sonore papagne. Odiò le loro manine, così piccole ma già così pesanti. Una volta provò a reagire, in fondo aveva vent’anni ed era grande e grosso, ma finì all’ospedale col naso rotto. Il suo avversario era un diavoletto, agile e spietato, di quasi nove anni! Cercò di barare anche alla riffa parrocchiale, per una pesca di beneficenza, ma il parroco lo cuccò subito e gli mollò una papagna imperiale: lo fermarono i carabinieri, due giorni dopo,  che vagabondava nei pressi di Enna; vaneggiava, tutto spettinato, e diceva di chiamarsi Isaia e di avere delle profezie da rivelare. Fu affidato ad una pia donna, psicologa e suora laica, che si prese cura di lui per più di tre mesi. Ma non ce la fece: si beccò un forte esaurimento nervoso e diventò una spietata serial killer! Sparò anche in testa a Emilio, con una 44 Magnum. La pallottola gli trapassò il cranio senza ledere organi vitali. Ancora oggi, i medici mostrano perplessi il poster della radiografia ( ingrandita dieci volte) del cervello di Emilio: il poster  è un normale 70x 100 e quella che sembra una cacatina di mosca non è altro che la “massa cerebrale”. Capirono perchè il paziente non avesse  mai sofferto di cefalea e tantomeno di cerebropatìa. Il giovane Emilio si rimise presto, ma il demone del gioco d’azzardo e del rischio lo perseguitava: si iscrisse al PSDI(acronimo di : Prendi i Soldi Degli Italiani. Già in quegli anni si scommetteva forte su quale sarebbe stato il successivo leader del partito a venire ammanettato). Partecipò a ben tre assemblee regionali del partito, ma l’ultima gli fu fatale. Se ne uscì con qualche sproposito dei suoi e tutti e sette i delegati lo presero a papagne e lo cacciarono dalla seicento multipla, dove si tenevano i congressi. In Sicilia non lo capivano. Decise di emigrare e, salutati i suoi ( che gli risposero da oltre le porte chiuse delle loro stanze), senza perdere tempo a salutare gli amici, (quali?) prese un treno per Milano. Naturalmente, sbagliò convoglio e approdò a Roma. Durante il viaggio conobbe una ragazza, figlia di un pezzo grosso della Rai Tv, alla quale disse di essere un ricchissimo premio Nobel. Il bluff gli era entrato nel sangue. Appena a Termini, molto srvizievole, portò le valige della ragazza per sette chilometri, fino a casa di lei. La ragazza non fu insensibile al suo fascino e gli diede mille lire di mancia. Qualche sera dopo, premiato dai numerosi appostamenti, la rivide di nuovo e la invitò in pizzeria. Non aveva una lira. Lei accettò e, una volta nel locale, Emilio si accordò di nascosto col padrone  e si trattenne per sei ore a lavare piatti.

 

 

Per liquidare la ragazza, le aveva detto che aspettava il Santo Padre, da un momento all’altro, e si sarebbe trattenuto in pizzeria. Il Papa aveva bisogno di un consiglio e l’avrebbe raggiunto in incognito. Lei si bevve la storiella e, trasognata, rientrò da sola. Prima di salutarla, però, lui era riuscito a sfilarle l’agendina coi numeri di telefono dalla borsetta. Dal giorno dopo, prese a telefonare a tutti i potenti di Roma millantando e spacciandosi ora per questo ora per quell’altro genio del giornalismo. Divenne presto un incubo e, siccome aveva il vezzo di chiudere sempre le telefonate con “ servo vostro”, quelli ( data la pronuncia incerta) capirono Paternostro e , pur di levarselo dai coglioni, gli fecero fare una brillante carriera. A Sandro Paternostro, naturalmente. Il suo momento non era ancora arrivato. Ripetè l’invito alla ragazza e ripetè anche il trucchetto col padrone della pizzeria. Con lei era vero amore. Amore puro e casto. Ma, siccome anche la carne aveva le sue esigenze, conobbe  una camerierina piuttosto allegrotta e le fece la corte. Questa cameriera “corte” non ne voleva: preferiva le lunghe aste dei lavapiatti tunisini, e quindi, una volta al dunque, lo mandò a cagare. Emilio  non ne poteva più: “ La carne è debole - pensò - ma il pesce è forte e vigoroso e tira. Minchia quanto tira!” Decise di andare in un sordido bordello, dalle parti della stazione. Non aveva una lira. Scopò, tanto per dire, si liberò insomma... e, scopertolo al verde, i pappa lo riempirono di papagne e lo misero a lavare piattole ( questa pare che non sia vera. N.d.A.).                                      

Finalmente, la sua ragazza lo portò a casa e lo presentò ai suoi genitori. Al cospetto del pezzo grossissimo della RAI, Emilio si mise a piangere di commozione, accese candeline, maledì i comunisti, lumacò le mani e le scarpe del padrone di casa... cercò anche di baciargli il culo, ma quello si era prontamente seduto a tavola. Emilio leccò la sedia e brigò per servire  “assolutamente” la cena, ma gli furono preferiti due capistruttura del Primo Canale. I padroni di casa erano abituati a questi comportamenti da parte dei sottoposti: Emilio non aveva inventato un cazzo. Gli venne concesso di riempire di Eukanuba la ciottola del cane. Il feroce maremmano lo guardò male e gli ringhiò contro: l’istinto dei cani è infallibile, l’animale aveva già capito che quell’essere gli avrebbe fatto una concorrenza spietata. Ma anche la tecnica di Emilio si rivelò infallibile. In occasione del secondo invito gli fu concessa la mano della ragazza e, al terzo  incontro,  il suocero gli concesse un bel contratto di giornalista RAI.

Emilio era al settimo cielo ( in quanto a “concessioni” il suo futuro padrone di Arcore gli faceva un baffo).        

La sua vita aveva un senso. Tutte le mattine andava in via Teulada, timbrava il cartellino, sorrideva a tutti compresa la macchinetta del caffè (non si sa mai: il futuro sarebbe stato comandato dai robot?). Di lavoro neanche a parlarne. Gli unici servizi in cui eccelleva erano sempre quelli che faceva con la lingua, ai suoi superiori. E siccome tutti erano suoi superiori, aveva la lingua a smeriglio. Ogni mese gli arrivava il congruo stipendio in un grazioso pacchetto regalo, con tanto di carta colorata e fiocchetto. E lui continuava a giocare. Cercò anche di giocare con una collega, ma si accorse di aver giocato col fuoco: la fanciulla era passatempo personale del vice direttore...

 

 

Scoperto, si beccò una papagna tale che lo ritrovarono in Africa. Lui, naturalmente, millantava di essere un inviato speciale in gara per il Pulitzer.

Insegnò il poker ai negretti e passava le sue pigre giornate così. Bluffava come una serpe, ma i negretti vincevano sempre. Gli portarono via anche l’ultima sahariana. Lui giocava soldi e gli indigeni vetrini colorati: non ne vinse mai uno! Non ci poteva stare. Chiedeva sempre più soldi all’Azienda, inventandosi improbabili servizi che non spedì mai e nessuno vide mai: servizi segreti? Spendeva quasi quanto Mariagiovanna Maglie, la craxiana formato scaldabagno, e venne soprannominato “Sciupone l’Africano”. Ma il suocero ci metteva sempre una pezza e qualche decina di milioni. Sempre dell’azienda. Emilio venne chiamato anche “ genero alimentato”. Continuava a giocare a poker, e a perdere, coi negretti. Un giorno, non ne potè più e, barando, cominciò a strillare:” Questa mano è mia! Questa mano è mia!”

Uscì da una capanna il padre di uno dei negretti, un signore distinto grande come il palazzo di giustizia di Roma, e gli disse: ”E questa mano invece è mia.” Gli mollò una papagna tale, che ancora oggi continuano a raccogliere le noci di cocco cadute per lo spostamento d’aria. Ci fu anche un incidente diplomatico. In un paese civile Emilio sarebbe marcito in carcere, in Italia venne promosso Direttore del TGUNO. Tutte le sere, leggeva le veline dei suoi padroni e sorrideva di sghimbescio dal video. Cominciò a ricevere valanghe di lettere di ammiratrici. Queste povere donne spedivano delle circolari: a Mike, a Gino Latilla, a qualche divo dei fotoromanzi, a Perry Mason, e a Emilio Fede. Speravano di sposarne qualcuno e sistemarsi. Emilio sbandierava quelle lettere, ne staccava i francobolli col vapore e li riciclava. Ormai era diventato popolare. Basta papagne, si illuse. Conobbe il lìder maximo, Bettino, e si innamorò di lui. Anche perchè suo suocero era stato messo da parte e lui era da solo. Un giorno, lucidati gli stivali a Craxi, gli si parò davanti e con grande sprezzo del pericolo si mangiò la tessera del PSDI. Poi quella della DC, quella del PLI,  e persino la tessera di Socio ACI.

“ D’ora in poi - giurò - avrò un’unica tessera ed un’unica fede: PSI di Bettino Craxi! Per  te, mio idolo...- non finì la frase ché fu costretto a scappare in bagno. Cagò le tessere esattamente come le aveva ingoiate: che non ci fosse bisogno di trasformarle? L’intestino era cieco, ma mica scemo!

Protetto dal cinghialone si illuse che tutto fosse lecito. Cominciò ad adescare dei polli per memorabili e suicide (per loro) partite di poker. Lui e i suoi soci mandarono in rovina tonnellate di padri di famiglia, piccoli e medi imprenditori, che sbavavano per sedere allo stesso tavolo da gioco del divo del TG. Una mano tirava l’altra, troppe mani attirarono le manette. Bettino lo salvò, ma il pubblico non lo perdonò. E nemmeno il servizio pubblico. Fu cacciato in tronco dalla RAI. Bettino lo piazzò a fare un similnotiziario, in mezzo ai piazzisti di una televisione privata, e la gente non capì mai chi  tra tutti quelli imbonitori sparasse più cazzate. Tornarono le papagne: molti clienti truffati, da questo o quel mobiliere o da qualche venditore di zirconi, lo confondeva con gli altri e, ogni volta che usciva, erano mazzate. Poi arrivarono Berlusca e le sue concessioni e Bettino dirottò Emilio a Milano due.

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Gli diedero un ufficio di fronte al bagno e lui esclamò:” Casa, dolce casa!”

Aveva trovato la sua sistemazione ideale. Ebbe un suo TG (si fa per dire), una sua redazione: tutta gente libera e coraggiosa come lui, autentici kamikaze dell’informazione. La gente si chiedeva sgomenta: ”Ma kamicazze fanno questi a spacciarsi per giornalisti?” Ebbe un suo stipendio grasso e non uno, ma ben DUE padroni! Gli italiani guardavano mestamente il TG4 e si irritavano: ”Ma, visto che vogliono miracolarlo sempre, perché non gli dànno un giornale da dirigere? Pulirsi il culo con un telegiornale  è impossibile!” Ma lui proseguiva per la sua strada.

Non gli è mai scappata una notizia corretta. Non gli è mai scappato  un commento obiettivo. Gli è scappato, invece, uno dei suoi padroni ad Hammamet. “Craxi? Mai coperto! Il mio idolo è Silvio! Io amo Silvio Berlusconi.” Anche Berlusconi ama lui. Emilio manda sempre un operatore col grandangolo a riprendere i comizi che Silvio tiene alle comparse della Fininvest: così anche quattro gatti sembrano una folla.Sceglie personalmente quelli della claque che hanno le mani più grandi e gli “evviva” più potenti. Dividono insieme il video, il cerone, la tintura per pennellarsi i capelli, e le risate fragorose degli italiani che sanno leggere e scrivere. Da quando Berlusconi è stato cacciato dalla poltrona di Presidente del Consiglio, ogni volta (prima dei pasti) che mio nipote intervista il padrone ed è costretto a  pronunciare “ex presidente” gli viene una ruga. Una crisi di Governo l’ha invecchiato di vent’anni! Una volta, Emilio è persino riuscito ad andare a cena in un famoso ristorante milanese, col suo adorato padrone (lui, si sa, è pieno di cuochi comunisti che guardano Santoro e  non esce mai da Arcore o da via dell’Anima). Arrivati al ristorante, vestiti  uguali, truccati uguali, sorridenti uguali, tronfi uguali, gli si è fatto incontro il maitre. Emilio gli ha fatto un bel sorriso sghembo e gli ha chiesto: ”C’è un posto per noi due?”

Nel senso: ma hai visto chi siamo? Ed il maitre, impeccabile:

“ Mi spiace, ma il personale è al completo.”

 

 

Ho raccontato solo la verità, senza nascondere nulla, perché anche a me è

sempre stato sul cazzo.

 

 

Firmato

zia  Enzuccia.

 

 

 

 

Capitolo quarto

 

CESARE PREVITI

 

 

Quando nacque il piccolo Previti ne parlò persino Quark e il National Geographic gli dedicò uno special. Era accaduto infatti che, suo padre stesso cercò di tirare giù, con un colpo ben assestato di doppietta, la cicogna che lo portava a casa. Sbagliò la mira ma, per la prima volta nella storia, le cicogne si  ammutinarono. Ci fu un tentativo di sommossa nei cieli e, per non turbare l’ecosistema, si decise di far portare il fagotto col piccolo Cesare (ogni riferimento al gangster è puramente voluto. N.d.A.) ad un volatile adatto e  poco schizzinoso. Così, anziché una cicogna, Previti lo portò un avvoltoio.

Il quartiere dove nacque osservò lutto stretto per oltre un mese. Il piccolo Cesare cominciò subito a studiare legge. Studiò talmente bene tutte le leggi ed il modo migliore per aggirarle, che è diventato quello che è diventato. Nessuno comprerebbe nemmeno una macchina nuova da lui. Laureatosi in legge alla scuola Radio Elettra di Torino, cominciò subito a fare il praticone... pardon, il praticante, presso lo studio di famiglia. Il suo quartiere di residenza entrò in lutto stretto per oltre due mesi. Intorno ai trenta-trentaquattro anni, conobbe Silvio Berlusconi e fecero insieme vita di società. Diedero anche vita a tante di quelle società, con intrichi e trucchi tali,  che nemmeno un esorcista sarebbe in grado di capirci qualcosa. Ma i giudici ci stanno lavorando... Il capolavoro del gatto e la volpe è stato:  Arcore e tutte le altre proprietà della povera marchesina Casati Stampa. Le hanno fatto sparire tutto e così rapidamente, che David Copperfield gli fa due pippe! Molto colto, ma mai sul fatto, e simpatico come Hitler, Cesare Previti ha sempre avuto molto successo come affarista. Meno nelle aule di tribunale e nella vita di relazione. Lui non ha amici, ma soci. Il suo Dio è il denaro e per lui sarebbe disposto a vendere anche l’anima, se ce l’avesse.  Oltre alle messe nere e ai riti satanici, ha l’hobby del calcetto. Ovviamente gioca con una squadra di picchiatori, la “ME TE MAGNO ER CORE”, e sono sempre in quindici contro cinque: come nelle migliori tradizioni squadriste. Hanno anche un fascio di supporters che fanno un casino del diavolo, fanno mulinare gioiosamente i manganelli, e minacciano fisicamente i bambini degli avversari. Nonostante questo non vincono mai una partita. Grazie al suo sodalizio con Berlusconi è stato candidato ed eletto alla Camera dei Deputati, nel tragico 27 Marzo del 94. Gli sono bastate poche apparizioni televisive per prendere i voti bastanti e per prendere ai coglioni il restante 97% degli italiani seri. Per sette-otto mesi è stato persino Ministro della Difesa... Ma ne vogliamo parlare?!

 

N.B. Spero che coli a picco  con tutto il suo veliero, mi deve un pacco di soldi ed ho dovuto persino cambiare nome per colpa sua.

zia Lella

 

 

 

Capitolo quinto

 

 

 

GIANNI “SUPPOSTA”  PILO

 

Ormai, lo potete vedere tutti, è un clone di Berlusconi. Preso dalla sindrome di Michael Jackson si è sottoposto a ben sette operazioni di chirurgia plastica, per somigliare sempre di più al suo padrone. Vuoi che questa tecnica  a Macomer non è avanzatissima, vuoi che il chirurgo è suo cugino

(se possibile ancora più vuoto e superficiale di lui), fatto è che ora Gianni è proprio identico. A Galliani! E si comporta come se fosse simpatico. Come Silvio. In più, a furia di sentirsi dare (da Silvio e soltanto da lui) del “ mago dei sondaggi”, si è montato la testa ed è in perenne crisi mistica. In famiglia si fa chiamare PADRE PILO e promette miracoli a tutti.Anche fuori non scherza: ha preconizzato a Ferrara un futuro da modello (per la Good Year?); a Sgarbi un Nobel per la pace (dei sensi?); a Michelini un futuro da statista (o da estetista?), e altre coglionate del genere. Da tre anni aspetta le stimmate, ma anzichè alle mani o al costato, glien’è venuta una grande grande in testa. Lui sostiene che quella è calvizie emulativa , ma gli intimi lo chiamano “Uniplus”. E suo zio (mio marito), pastore laureato, gli ha detto che gliele fa lui le stimmate se lo becca: ma come si facevano sul bestiame, col ferro rovente, nell’antica Grecia! Molti, da queste parti, lo chiamano DAGGIO: a furia di ripetere monotonamente “son daggio   son  daggio”

 “Sei Daggio?”

Ha rovinato il buon nome della famiglia e, per noi gente fiera di Macomer, questo non è tollerabile. Come farà a fare sondaggi poi, che ha sempre avuto due in matematica?! Anche lui, come Craxi, è stato convinto fino a poco tempo fa che tutte le addizioni facessero SEI! Forse perchè non sentiva altro che : SEI scemo, SEI montato, SEI la vergogna di Macomer, SEI un impiastro...

Già da piccolo, lo scartavano tutti: eravamo costretti a pagare i bambini del vicinato affinché giocassero con lui. Poi ci chiesero delle cifre esorbitanti e il nostro Giannino fu costretto a giocare, da solo, estenuanti partite di calcio.

Prepotente e meticoloso, faceva partite regolamentari di due tempi da 45 minuti e si arbitrava da solo. E si azzuffava da solo col guardalinee, di parere contrario: che era sempre lui! Finiva sempre schiantato, a forza di correre su e giù, nel campo regolamentare dei salesiani, e già da allora ebbe delle visioni. A scuola non era ben visto: ruffiano e lecchino coi professori, faceva il saputello e passava i compiti ai compagni che lo pagavano in figurine. Siccome era negato, li bocciavano sempre in blocco e lui doveva nascondersi nell’ovile di qualche parente, per giorni e giorni. Si è diplomato, pedicure, per corrispondenza: questo è l’unico titolo di studio che ha. E questo spiega anche perché è sempre ai piedi di qualche potente: deformazione professionale. Dice di aver fatto l’operaio... Sì, gli abbiamo trovato un posto, in cambio di venti pecore gravide, nell’unica fabbrichetta locale, ma non è andata bene. Gli abbiamo anche regalato una bella tuta blù nuova, ma, già mentre la stava indossando, chiedeva quando gli avrebbero dato le ferie.

 

 

Avrà lavorato sì e no due ore e stiamo ancora pagando i danni. Ma lui, con la faccia come il culo, era andato dal direttore per chiedere la paga. Quello, per non fare brutta figura con noi, invece di prenderlo a calci nel culo, gli ha chiesto: “Quanto hai lavorato?” e Gianni: “ Due giorni con domani.”

Con le trentamila lire di paga e coi risparmi della famiglia (che ancora la mamma li sta cercando...), ha lasciato Macomer per trasferirsi a Cagliari.

Erano gli anni del craxismo esasperato e la P2  la faceva da padrona (come adesso), specialmente in Sardegna: Costa Smeralda, Flavio Carboni, Berlusconi, Comincioli, Armandino Corona, Tv locali, quotidiani asserviti...

Gianni capì da che parte tirava il vento. Conobbe il portaborse di un deputato sardo del PSI, Nonne, e si aggregò. Faceva l’amico: “Dài a me, ch’è pesante, la porto io...”. Brigò tanto che, alla fine, il portaborse divenne lui. Entrò subito nel meccanismo del Dio Denaro. E’ sempre stato troppo occupato per trovare il tempo di lavorare! Grazie a Nonne, aprì a Cagliari una società che gestiva fondi (quanti!) provenienti da contributi regionali, nazionali, e perfino europei! Aiutavano le piccole cooperative e le società giovanili. A spendere quei soldi. Se qualche magistrato andasse a controllare i conti di quella società, credo che Gianni dovrebbe fare un po’ di conti con la giustizia. Preso dal raptus dell’imprenditore, megalomane e rampante, grazie all’appoggio dei muratorini e forte della protezione di Nonne, si lanciò nel campo alberghiero. Gianni ha sempre avuto grandi idee che non valgono un cazzo! La Sardegna era ed è famosa per il suo mare. Ma il mare se lo erano già accaparrato Berlusconi, mafia, e soci. Nonne era di Fonni, il paese più alto dell’isola, ma a Fonni c’erano già tre alberghi. Che fare? Grazie a un ambaradàn, comprò un terreno in Barbagia e decise di aprire “l’unico albergo al mare...però  in montagna”! Un’idea fulminante. Unica al mondo. Detto- fatto! Nell’arco di tre mesi era nato l’hotel-ristorante “ DA GAVINO AL CINGHIALE MARINO”. Nome esotico, costato mesi e mesi di indagini di mercato. Una bomba! Il locale, però, era piuttosto scarso e pretenzioso: arredato con brandelli di reti puzzolenti e cadaveri di cetacei. Servizio nullo.

A quasi mille metri sul livello del mare ed il mare a settanta chilometri. Tutte curve! I pochi clienti, ingannati dalla pubblicità, arrivavano con  tenute da spiaggia e gommoni. E canne da pesca ed esca viva nelle borsettine di paglia. Ma non facevano in tempo a lamentarsi: perchè dovevano pagare in anticipo e venivano subito inquadrati dall’animatore. Questo animatore era un po’ come lo “stalliere” Mangano di Berlusconi. Si chiamava Giuseppe, Beppe per gli amici. Ma, siccome non aveva un amico al mondo, tutti continuavano a chiamarlo Giuseppe. Anzi: i clienti erano costretti a chiamarlo Signor Giuseppe, sennò erano cazzi! Questo Giuseppe era stato segnalato a Gianni da un amico di Dell’Utri, che l’aveva conosciuto all’Asinara. Giuseppe era un bell’uomo (per chi ha il gusto dell’orrido), alto quasi due metri e pesante quanto un trattore; tutto istoriato di cicatrici e, dove c’era posto, da vergognosi e sconci tatuaggi fatti in galera. Fondalmentalmente, era un uomo alla mano. Anzi, alle mani: che usava spesso e volentieri coi clienti che sgarravano, disubbidivano, o si rifiutavano di partecipare ai giochi di società inventati da lui. Giuseppe aveva stabilito questo programma: sveglia alle cinque; alle cinque e quindici tutti i clienti, bambini inclusi, si dovevano far trovare pronti nella hall, davanti alla vasca dei cinghialetti rossi. Tutti coi bidoni in mano (bidoncini per i più piccoli) e, SUBITO, alla fonte a prendere acqua. E di corsa anche: a Giuseppe piaceva l’acqua corrente! (Gli operai dell’impresa, scelti da Giaanni a sua immagine e somiglianza, avevano anche provato, durante la costruzione dell’albergo, a scavare un pozzo per l’acqua, ma, dopo venti centimetri di scavo, non avendo trovato acqua, nè petrolio, nè pepìte, avevano lasciato perdere.) A Gianni, in seguito, era molto piaciuta l’idea di Giuseppe di far riempire i vasconi e tutti i serbatoi ai clienti:

“ Così non si annoiano.”

ORE 9: escursione sul Gennargentu con pranzo al sacco. Tutti si portavano dietro un sacco di cinghiale avanzato dalla sera precedente. Nel bosco Giuseppe, sempre col fischietto che usava per impartire gli ordini, lanciava i giochini inventati da lui: “A chi raccoglie più legna...” (nell’hotel non c’era ancora l’energia elettrica e la legna serviva per cucinare e per scaldare il nostro Gianni e il Signor Giuseppe: visto che faceva un freddo boia la sera).

Un altro bel gioco era: ”A chi raccoglie più frutta... senza farsi beccare dai padroni degli orti e delle vigne.” Tipi notoriamente atipici, con la doppietta come prolunga naturale delle braccia. Mentre i clienti erano impegnati in questi giochi di animazione, Giuseppe andava a stanare qualche cinghiale infrattato o intanato. Andava disarmato, naturalmente (semmai si sarebbe dovuto armare il cinghiale...), lui non aveva bisogno di armi: usava la testa. Per finire l’animale. Certe testate! A volte ne prendeva anche cinque o sei.

Li caricava sulle spalle dei clienti, portatori sani di cinghiali, e rientravano alla base cantando “a mostrar le chiappe chiareeee...”   Il menù del giorno dopo era salvo. E guai a chi non cantava! Di nascosto, nel gelo e nel buio delle loro camerette, i clienti parlavano malissimo di Giuseppe, di Gianni, dell’albergo, dell’organizzazione, della Five viaggi che li aveva spediti lì e persino del ristorante. Si chiedevano, sottovoce:

“ Ma le pietanze si chiamano così perchè fanno pietà?”

Tutti mostravano grande curiosità per le ricette locali. Non volevano sapere come si cucinavano determinati piatti, ma perché?! Io ci sono stata, una volta, e ancora sto male se ripenso al menù: antipasto mare con cozze, cinghiale marinato e panna mista a pecorino coi vermi. Flambè (sic!). Calmari surgelati e vongole del Tirso con soufflè di cinghiale; Brodino leggero di cinghiale e peperoni di montagna; Stufato di capra e maiale di montagna (cinghiale), con melanzane e zucchine ripiene di cinghiale... Però c’era anche la cucina internazionale. Che era peggio! Questa la facevano solo in occasione dei convegni... del convegno: uno ne hanno fatto. Cioè: avrebbero dovuto farlo, ma non è arrivato nessuno ed è avanzata tutta la roba. Un sacco di cinghiale e osèi, cinghiale alla milanese, cinghiale al pesto (con mirto e foglie di quercia tritate, perché  il basilico lassù non cresceva...), cinghiale alla veneta (un fegato per mandarlo giù!), per dessèrt: bocconcini di cinghiale con glassa e nutella. Bleah! Questi menù Gianni li ha portati anche a Milano e adesso li leggono dei comicaroli della TV, per ridere.

 

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I pochi clienti che accalappiavano avevano un sacrosanto terrore di scendere in taverna. Ma erano obbligati da due fischi prolungati di Giuseppe. Questa, più che una taverna era una caverna: umida, illuminata fiocamente da due torce, e infestata da ogni tipo di insetti, ragni e pipistrelli. Quattro panche sconnesse ed un vecchio juke box, collegato alle batterie delle macchine dei clienti. Questo juke box conteneva cento dischi, TUTTI DI MUSICA E CANZONI SARDE! Che piacevano moltissimo. A Giuseppe. I clienti erano costretti a far funzionare l’aggeggio e a danzare, divertendosi, i balli sardi.

Il vecchio juke box era stato adattato da Giuseppe e non funzionava coi gettoni o con le monetine: ci volevano diecimila lire! Quando non suonava, Giuseppe lo prendeva a pugni. Non il juke box: il cliente che non aveva messo le diecimila. Non se la scampava nessuno. Tutte le sere così.

Insomma, una tortura. Tant’è che i clienti più coraggiosi o più disperati, tentavano la fuga nella notte. Si sentivano dei piccoli Messner (non quello attuale, sfigato, che cade nell’acqua del polo che si apre e grida

“ FREDDISSIMAAAAAAA!”... il Messner dei bei tempi: cazzuto e temerario).

Questi pochi Indiana Jones in sedicesimo, venivano regolarmente ripresi e puniti, sempre da Giuseppe. Quando, finiti i soldi, arrivava il momento della partenza, piangevano tutti di commozione e di gioia; si abbracciavano nella hall e qualcuno cercava anche di dare, non visto, qualche calcio a uno dei cinghialetti rossi nella vasca. Qualcun altro sputava contro l’imponente cinghiale impagliato, con una pinna di squalo posticcia incollata sulla schiena

(altra grande idea di Gianni, che faceva cagare...): il “ CINGHIALE MARINO” appunto, che troneggiava sul bancone del ricevimento. Insomma, al momento della partenza, tutti i clienti sembravano più giovani di dieci anni!

Gianni, a quella vista, creò un fantastico slogan: ”DA GAVINO AL CINGHIALE MARINO - IL CLIENTE RITORNA BAMBINO” .

Qualche cliente gli disse che era uno slogan azzeccatissimo; pensando tra sé

di riprodurlo in un’enorme insegna al neon e di ficcagli tutta l’insegna su per il culo. Gianni, troppo pieno di sé, pensava: ”Che mi frega? L’albergo si deve ancora far conoscere... arriverà il giorno in cui sarà tutto esaurito. Per ora, mi basta che sia esaurito il cliente: parlatene male, ma parlatene! Quale pubblicità migliore? Anche se i clienti se ne vanno incazzati, che mi frega? Basta che paghino!” I clienti pagavano e zitti. Ma se ne andavano già pensando a un modo per fargliela pagare a lui.

Anche l’avventura dell’albergo fu un fiasco. Ma per Gianni andò bene lo stesso: i soldi erano della Regione! Grazie al suo protettore politico e agli amichetti della P2, si trovò in un batter d’occhio a Milano due: direttore dell’ufficio marketing della Fininvest. Che c’è di strano? Il portavoce di Berlusconi non è Tajani? Mio marito dice che è un mezzo scemo (nemmeno intero...), identico a Hitler giovane, senza baffetto. Dannoso quanto lui. I giornalisti di punta di Silvio non sono Fede, Liguori e Panella? In mezzo a questa banda di ritardati, mio nipote non sfigura per niente, anzi! D’altronde, uno intelligente, se non è ladro, mica si può mettere a fare il servo a Silvio!

 

Il capo ha bisogno di circondarsi di mezzeseghe, più  incapaci e deficienti di lui ( una fatica trovarli!), sennò non può risaltare. Semplice. Adesso Gianni dice che vuole scrivere la sua biografia, l’editore ce l’ha già. Io gli ho mandato un francobollo da 25 lire: dietro ci sta tutto. Prima, però, deve finire i sondaggi in vista delle elezioni. E le elezioni, come dice The Economist, Silvio deve fare in modo di vincerle, sennò sono cazzi! Nel 1998 scadono le concessioni governative che gli aveva regalato  Bettino e, se vince Prodi... il rinnovo lo vedo male. Se perde le elezioni, le banche gli saltano addosso per riavere le migliaia di miliardi che gli hanno prestato anni fa... e ancora, campa cavallo!

Lui però aveva detto ai presidenti delle banche: ”Ve li rendo piano piano”. E’ stato di parola: più piano di così! Poi c’è il Giubileo del 2000... sai che pacco di soldoni e tangenti, che torta mai vista! per gestirla coi comparuzzi e i fratelli muratori?! Mio marito, che è maligno, dice che una parte della chiesa appoggia Berlusconi, perché con lui sa di poter fare i giochetti, se vincono Prodi, Bossi e D’Alema: col cazzo, fanno i giochetti! Gli chiedono pure lo scontrino dell’autobus ai collaboratori... Quindi: Giubileo, e.. il pool di Borrelli? E il pool di Caselli? Dove li vogliamo mettere, questi comunisti? Hanno pure due cognomi che fanno rima. Fanno rima pure con “cancelli”. Il punto è: dentro o fuori questi cancelli? Fuori, se le indagini non saltano o non saltano per aria i giudici, c’è un solo modo per starci: biglietto alla Craxi di sola andata, per  Virgin Island o Bahamas (dove ci sono i conti segreti più pingui); o Vaduz? Ma forse basta arrivare in Svizzera: c’è l’UBS...

Povero Gianni mio, come ti vedo male! Ma tornatene a Macomer e dài una mano a tuo zio con le pecore. Ti sembrerà di stare ancora in Forza Italia, ma almeno le pecore sono utili: ci dànno il latte, la carne, il formaggio e la lana.

Se perdete le elezioni, invece, il tuo capobranco ti dà un bel calcio in culo!

E dove lo trovi un altro che ti dà un posto e uno stipendio così? E smettila di fare sondaggi infallibili: ”Lei preferisce Berlusconi o schiantarsi contro un Pendolino lanciato?” “Lei preferisce il Polo o prendersi il vaiolo?” “La Costa Smeralda  di Silvio o Cernobyl di D’Alema?”

Dài  retta a zia: lascia che si tirino il collo per conto loro. Torna a casa, Fesso!

 

 

 

P.S. Noi ti abbiamo perdonato tutto. Se insisti, non so se gli italiani te la perdoneranno.  Ti prometto di non chiamarti più “Testa di supposta”.

E tuo zio non ti metterà più il dito sul cranio, per impedirti di fare la pipì.

 

 

Firmato

zia Salvatorica

 

 

 

 

Capitolo sesto

 

GIULIO ANDREOTTI

 

 

Nasce a Roma tantissimi anni fa, già a forma di boomerang, e si becca il primo schiaffo della sua vita dalla levatrice: aveva cercato di baciarla. Lei si chiamava Ritina ma lui, non sapendo ancora pronunciare la T, veva capito Riina. Dopo il fatto, schifandosi di toccarlo, Ritina lo prese per le orecchie e lo depositò vicino alla madre. Le orecchie si allungarono a dismisura. La madre, vedendolo, ebbe un mancamento. Lui capì “mandamento” e intravvide subito quale sarebbe stata la sua carriera futura. Suo padre, appena lo vide, finse di aver dimenticato qualcosa giù nel calesse di famiglia, girò sui tacchi e nessuno lo rivide mai più. Ancora oggi non se ne parla né si hanno notizie di lui. La madre fu costretta a far adattare la culla, che le avevano regalato per il piccolo, in quanto la forma da boomerang  impediva a Giulio di stare regolarmente sdraiato: era nato il primo bambino a dondolo della storia! Non potendo modificare la carrozzina, era costretta a portarlo in giro a pancia sotto: così evitava anche gli sberleffi dei maligni. In questo modo potevano dire, al massimo: ”Che nuca di merda ‘sto regazzino”.Giulio, fino ai dieci anni, non vide mai in faccia sua madre: lei infatti gli rivolgeva la parola stando voltata da qualche parte. Una maledetta cervicale le impedì più tardi di articolare il collo e fu costretta a guardarlo. Da allora soffrì continuamente di nausee. Nonostante le apparenze (brutte), Giulio si dimostrò uno studente modello e un figlio devoto: teneva molto alla famiglia  e crebbe con la testa sulle spalle. Direttamente. Il collo lo lasciava volentieri al suo compagno di banco, un certo Modigliani: ne avrebbe fatto buon uso. Quando Giulio compì quindici anni, i nonni gli regalarono una poltroncina tutta sua e la madre potè finalmente buttare via, di nascosto, il suo vecchio seggiolone: era stata un’impresa disincastrarlo e staccarlo da lì. Si era affezionato! Sempre in quel periodo, beccò una marea di schiaffi e nerbate sulle spalle alle adunate della gioventù fascista: il federale lo voleva dritto come un fuso, come tutti gli altri balilla, e lo percuoteva a raffica sulla gobba, gli rovinava l’insieme e le parate venivano una merda. Persino lo speaker della “Settimana Incom”, nei suoi commenti stentòrei, parlava male di “quel ragno sgraziato che affligge il desiderio di fierezza e perfezione che il nostro Duce ci trasmette” . Fu il primo sputtanamento ufficiale. Si iscrisse all’Azione Cattolica. L’azione principale dei suoi compagnetti, più che gli esercizi religiosi, contemplava gli esercizi di mano: si chiudevano nel campanile vicino e giù seghe! Il sacerdote esecrava queste pratiche e citava ad esempio Ray Charles e Josè Feliciano: “ Avete visto che fine hanno fatto con quei toccamenti?” Giulio, data la sua particolare conformazione, trovava più comodo e piacevole soddisfarsi oralmente. Il catechismo non diceva nulla contro i pompini self made. Furono anche gli unici pompini della sua vita; se si escludono quelli di una vecchia carampana romanesca, travestita da eterna quarantenne, che in cambio ottenne un programma su  Raiuno a vita. Ma questo avenne più tardi.

Un’altra delle attività della combriccola era: “chi piscia più lontano”.

 

Giulio prese parte al gioco solo poche volte: la sua postura lo portava a pisciarsi  dritto dritto il ciuffo corvino, che gli stava diventando biondo.

Intorno ai vent’anni, mentre tutti portavano i cervelli all’ammasso, lui trovò più astuto e remunerativo portare la borsa ai potenti. Il suo migliore amico di allora, un noto tapezziere, gli trasmise l’amore per i divani e soprattutto quello per le poltrone. Da allora, ha posato più prime pietre lui dei cementificatori Ligresti e Berlusconi messi insieme; ha tagliato più nastri lui di qualunque vecchia merciaia. Peccato che molte di quelle prime pietre siano rimaste anche le ultime e quei nastri, essendo nastri di partenza, abbiano visto molte partenze: per Hammamet, Argentina, Costa d’Avorio... Capiti i giochi, non impiegò molto tempo a diventare ministro. Stava spesso in mezzo alla gente, ma riusciva sempre a sgusciare via gatton gattoni. Ascoltava tutti e faceva tesoro delle raccomandazioni dei suoi estimatori.  Faceva anche lui le sue brave raccomandazioni, grazie alle quali i suoi estimatori facevano dei tesori.

Da  ministro, non potevi più dargli un consiglio che lui, subito, ne diventava Presidente. Si circondò di amici fedeli e disposti a tutto per lui. Si circondò di amici e amici degli amici disposti a tutto. Viaggiava spesso per il mondo e tornava sempre alla sua cara patria e alla sua amata Poltrona. Viaggiava in aereo e in treno. Alcuni suoi amici, forse per emularlo, provarono a viaggiare anche loro, ma per molti fu viaggio di sola andata, non tornarono mai più: forse perché anziché in aereo pretendevano di fare il viaggio dentro un pilone di cemento. Poco aerodinamico. Altri bevevano caffè scadente o gli si impigliava la cravatta sotto qualche volta del ponte dei Frati Neri, a Londra: posto pericolosissimo per i viaggi di piacere! Ma i più stupidi erano quelli che si mettevano davanti (o di spalle) alla traiettoria di qualche pallottola veloce o addirittura sopra qualche carica di tritolo. Lui deplorava questi amici. Spesso, andava compunto e puntuale ai loro funerali: è sempre stato un uomo meticoloso e preciso, segnava in agenda le date dei vari funerali addirittura con mesi di anticipo! Tu dovevi morire in agosto? Lui, già a maggio, aveva l’appunto nella sua agenda segreta (gli era rimasto il vezzo del lucchetto nel diario segreto, come da ragazzino). Preciso come la morte. In seguito, difendeva la memoria di questi amici distratti o sfortunati, contro tutte le malelingue e le allusioni tipicamente italiane. Conobbe molti capi di Stato e a tutti strinse le mani. Conobbe molti capi e ne baciò solo uno. Moltissimi restarono colpiti dalla sua carica di ironia fulminante, qualcuno poco propenso al buonumore ci restò, fulminato da una forte carica. Ma lui che c’entrava? Aveva ben altro di cui occuparsi! Doveva inaugurare, presiedere, proteggere, raccomandare, testimoniare, coprire, sensibilizzare.

Tutto questo frenetico attivismo lo portava a conoscere molte persone e a non conoscerne molte altre. I cugini Salvo, per esempio,  mai coperti!

Si concedeva volentieri alle interviste e rispondeva di buon grado alle domande: “ La squadra più bella del mondo?” “La roma “ “La donna più sexy d’Italia?” “Rosanna Lambertucci” “Il giudice migliore d’Italia?” “Carnevale”.

 

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Rispondeva meno volentieri ad un intervistatore nuovo, un torinese emigrato a Palermo,  ma soltanto perché questo Caselli gli poneva domande troppo personali. E Giulio ci teneva alla sua privacy: la famiglia doveva restarne fuori. “Le cose della famiglia sono cose nostre.” sottolineava. Poi non bisogna dimenticare che, così come un nano superdotato non si godrà mai una bella scopata (già:tutto il sangue affluisce per indurire i corpi cavernosi del pene, gli va via dal cervello, e sviene!), altrettanto Giulio era penalizzato dal sangue che affluiva copioso alla gobba: gli creava forti scompensi al cervello, con dolorose emicranie e frequenti amnesie. Lo sanno tutti! Perciò, basta criticare i “non ricordo”. Vorrei vedere voi al posto suo! Come se fosse facile, o piacevole, ricordare certe cose! Come se fosse divertente andare con la memoria o a rovistare tra i dossier segreti, giù in cantina, per ricostruire le fasi dell’eliminaz... del rapimento di Aldo Moro! Cioè, uno fa una fatica del diavolo per confondere, intorbidire le acque, depistare, insabbiare tutto (sempre per non turbare o allarmare l’opinione pubblica), poi arriva fresco fresco un Caselli qualunque  e pretende di sapere la verità. Ma andasse a cagare! Ma si metta in coda con gli altri: mica è il primo o l’unico che vuol sapere la verità! Troppo comodo! Ma chi ce l’ha messo lì quel Caselli?! Non era meglio Vitalone? O Curtò? Hai voglia! Ha ragione Berlusconi, fratello e amico di famiglia,  sincero e sempre lucido (sopra e dentro la testa): ci sono comunisti dappertutto! E vogliono sapere tutto di tutti. Sistemi bulgari. Che poi, venissero almeno con un’immunità in mano... un’amnistia... niente! Si presentano, ex  abrupto,  a mani vuote e ti aggrediscono: “E di Gelli che ci dice?” Gelli?!...  “ Sì, Gelli. Ci risulta che l’ha incontrato molte volte.”

·          Ma uno si può ricordare di tutti i rappresentanti di permaflex che ha incontrato  all’hotel Excelsior nella sua vita? A parte il fatto che, con quel cappuccio in testa, in quelle riunioni si riusciva a riconoscere giusto Silvio Berlusconi, per tutta la farinetta di cerone che gli nevicava le scarpe, quasi del tutto coperte dal cappuccio; certe volte ci inciampava pure sul cappuccio: non è mai stato altissimo... ma poi, che cosa ve ne frega a voi dei miei incontri? Mica sono Tyson! Calvi?! Beh, qui vi posso aiutare. Di calvi, oltre a Berlusconi, conosco Vitalone, il nipotino di Armandino Corona: Pilo, poi... Come?! Io?! Faccio il finto tonto?... Ah! Io faccio il finto tonto... Sempre meglio di Tajani, che finto non lo sarà mai! -

 

Ultimamente, grazie al genio e alla complicità di quel mattacchione di Cossiga, mio nipote è stato nominato senatore a vita. Toccàtelo adesso! Non deve più nemmeno rompersi i coglioni a cercare voti o preferenze. E’ solo molto dispiaciuto per la morte dei suoi amici più cari: Francolino Evangelisti e lo squalo Sbardella. Soprattutto per Sbardella ci è rimasto molto male: morire così, di morte naturale...

 

 

firmato: zia Nerina

 

Capitolo settimo

 

BETTINO  CRAXI

 

 

Nasce che pesa ottanta chili: aveva creato delle riserve di cibo al di fuori della placenta, un canale segreto con l’esofago materno, e si era mangiato tutto .

Sua madre era stata l’unica donna al mondo a perdere trenta chili durante la gravidanza. L’unica ecografia esistente, conservata alla NASA, ci mostra Bettino al terzo mese con due mani già formate, grandi come la Montedison, mani senza fine, e il resto del corpo: un bozzolo. Due ore dopo la nascita, gli piovve addosso la prima denuncia: la levatrice si era resa conto che a “levare” era stato abile e veloce anche il neonato; quattro poliziotti scelti gli aprirono faticosamente, e dopo aspra lotta,  i pugnetti chiusi  e ricuperarono la fede e l’anello di fidanzamento della levatrice medesima. Dopo la sua nascita, il corpo di sua madre si era afflosciato come un sacco vuoto; le erano persino rientrati i seni. Fu necessario comprargli un biberòn. Due biberòn... quindici biberoni maxi. Li ingoiava come niente e non risputava nemmeno la plastica: cacava palloncini. Suo padre, brava persona, decise di comprare un biberòn formato gigante e si recò a Dysneyland, sicuro di trovarlo. Al suo ritorno, si ritrovò in mezzo a una strada, con l’immenso biberòn tra le braccia: Bettino aveva messo in vendita la casa con tutti gli arredi e si era trasferito all’Hotel Raphael di Roma, che prendeva chiunque.

Di intelligenza prontissima e precoce nel fisico, si iscrisse da solo al vicino collegio svizzero. A tre anni era già in quinta elementare. Aveva problemi solo con la matematica: gli avevano spiegato che 3 + 3 = 6  e lui l’aveva capito subito e si era montato la testa convinto di sapere tutto. A quel punto, la maestra, frau Gruber, decise di farlo impazzire e spiegò che, non solo tre più tre faceva sei, ma anche quattro più due faceva sei; e addirittura cinque più uno faceva sei! Insomma, Bettino si convinse che TUTTO facesse sei... Perciò, più tardi, decise di lasciare ai vari Cusani, Larini,  Giallombardo, Ruju & c. l’incombenza dei numeri e lui decise di fare i conti solo con Borrelli e Di Pietro. O meglio, non decise lui, ma questa è un’altra storia.

A otto anni diede un altro saggio della sua scaltrezza: entrato in un bar di via Veneto, ordinò un gelato mastodontico e prese la via della porta. Il padrone lo bloccò: ”Beh? Non lo paghi il gelato?” “E perché, lei l’ha pagato?” chiese l’impudente Bettino. “Certo che io l’ho pagato!” gridò il barista. “E allora? Mica lo dobbiamo pagare due volte” concluse Bettino, lapalissiano, scappando via. Arrivò incolume ai vent’anni e conobbe una splendida ragazza romana di nome Sandra. Lei faceva l’attrice e altro. Lui la corteggiò assiduamente e fu l’unico a farlo: agli altri uomini lei la mollava subito. Andarono a fare un pic nic a Villa Pamphili. Era una splendida giornata di sole e Sandra non aveva messo le mutandine: perchè perdere tempo? Non aveva messo nemmeno il cestino giusto, nel portabagagli della Vespa. A mezzoggiorno, accaldati ed affamati, si appartarono all’ombra di una quercia e aprirono felici il cestino di vimini... dentro c’erano i lavori a maglia della madre di Sandra!

Lei fece una risatina sciocca e lui non sottilizzò, forse pensando a cucina tipica o  a qualche usanza locale, cominciò a mangiare gomitoli di lana, filo di scozia, cotone: bistecca ai ferri o lavori all’uncinetto tutto fa brodo, purchè se magni! (Lui proveniva dalla Sicilia e da Milano in parti uguali. Altra cultura...)

Già che c’era si mangiò anche il cestino, erano fibre. E perché no? anche gli uncinetti e i ferri da quattro. Aveva carenza di ferro. Spolverò anche le ghiande sparse tutt’intorno e andò ad abbeverarsi al laghetto. Sperando di risucchiare qualche anatra, qualche bel cigno grasso... Poi tornò all’ombra, si grattò l’ immensa schiena contro il tronco della quercia e, dopo un poderoso rutto, si sdraiò e prese subito a ronfare. Sandra aprì le gambe sconsolata e si guardò la patatina, sola soletta, tutto ciò che la penetrava era il ponentino. Si videro ancora e andarono a Fontana di Trevi. Bettino vide che la gente buttava un sacco di soldi nella fontana e chiese il perchè. “Perché la lira non vale un cazzo.” rispose un vecchietto. E ancora non avevano governato né Bettino né Silvio...Bettino aveva capito che il lavoro è fatica e perciò decise di entrare in politica. Diventò amico di una persona per bene, Sandro Pertini, e lo circuì a tal punto che il vecchio, presentando il giovane gigante prensile,  diceva: “Bravo giovine, figlio di pochi sì, ma onesti genitori.” Pertini era ingenuo e già un pochino andato. Lo invitava spesso a pranzo: ”Vieni a pranzo da me domani - gli diceva - ci sarà anche Bettino.” “ Ma Bettino sono io!” rispondeva il massiccio. “Non fa nulla, - tagliava corto il vecchio - vieni lo stesso.”  Bettino cominciò col portargli la borsa e finì col portargli via il partito. Intanto continuava il giochetto dei gelati a scrocco in tutti i bar della capitale e della provincia. Quantità industriali di gelato. I baristi non lo beccarono mai, ma il diabete sì. Pertini lo portò con sè a Caprera per una ricorrenza garibaldina. Nella piccola isola aleggiava un’atmosfera di anacronistico patriottismo. C’era anche la televisione e un cronista, già che c’era, porse il microfono anche a Bettino: “A cosa pensa, lei così giovane, quando vede la bandiera italiana che sventola?” gli chiese. E Bettino: “Penso che c’è un casino di vento.” rispose con evidente senso pratico. Scoprì però Garibaldi e si innamorò del personaggio e della sua storia, anche se ebbe a criticarlo per la sua ambizione modesta: “I mille?! I miliardi, muovono il mondo! Cazzo i mille!” Si giocò subito la simpatia di tutti i presenti in camicia rossa.

Si giocò anche l’amicizia del vecchio Pertini, perché aveva il vizio di dargli delle poderose manate sulle gracili spalle. Sembrava farlo apposta: ogni volta che nonno Sandro portava alla bocca con mani tremolanti la solita tazza di brodo caldo, arrivava Bettino e giù una tremenda manata sulle spalle: ”Come va, vecchia quercia?” Pertini lo mandò affanculo. Bettino, senza protettore, ricercato da tutti i baristi, decise di tornare a Milano e si adattò a fare l’assessore. In quel periodo conobbe un giovane cantante di piano bar, che aveva un piano a nolo per suonare e un piano personale per fare soldi. Bettino aveva per le mani un piano di programmazione edilizia del Comune: fecero un piano per unire i due rispettivi piani. Questo giovane pianista disse di chiamarsi Elizabeth Arden, poi disse di chiamarsi Charles Aznavour, poi Chanèl, poi Silvio. Disse anche di essere dottore, poi infermiere, poi  Gesù , cavaliere,  muratore... Iniziava tutte le frasi con: “Mi consenta... te lo giuro sulla testa dei miei figli... sinceramente... onestamente... quantevveriddìo “ Tutte le cose che premettono i bugiardi, insomma.

 

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Però al piano era un grande solista. Appena cominciava, la gente se ne andava e lo lasciava solo. E lo licenziavano. Ha cambiato più locali allora che idee adesso. Bettino, più monotono, ripeteva sempre la stessa solfa: “E a me quanto me ne viene?” Divennero amici per solitudine. Entrambi erano molto soli. E sòla (come dicono a Roma). Silvio pensò di sposarsi, matrimonio d’amore: lui aveva preparato le carte per il matrimonio e sua moglie ci aveva messo le carte di credito. Anche Bettino si era sposato, contro una certa Anna. I due amici, ormai lanciati nel mondo degli affari, decisero di andare ad incontrare dei probabili soci a Bruxelles. Segno di riconoscimento: fedina penale da otto chili, accento palermitano marcato, coppola, e lettera di presentazione di Dell’Utri. Presero la macchina del suocero di Silvio e partirono da Milano alle due. Alle sette erano fermi a Strasburgo e litigavano:

“La benzina c’era!- giurava Silvio - Il serbatoio era pieno quando siamo partiti. Ha fatto il pieno mia moglie!”-  L’unica verità di tutta la sua vita.

“Tira fuori la benzina o ti spacco i sopratacchi! “ sbraitava Bettino. Un vecchio  benzinaio emigrato spiegò pazientemente ai due che la benzina, come tutte le cose, finisce. Bettino ebbe un’illuminazione: “Quando diventerò ministro o presidente del consiglio aumenterò la benzina, così non finisce.” Mantenne, ahinoi, la minaccia. Naturalmente, aumentò a ripetizione il costo della benzina, non la quantità di carburante… Giunti miracolosamente a Bruxelles si incontrarono coi futuri soci in un bar gestito da italiani. I gestori erano di Afragòla e tutti i clienti avevano strascicati accenti del mezzoggiorno d’Italia. Persino le etichette sulle bottiglie esposte erano adeguate all’ambiente: Gambàri, Ginzàno, Scivàs... I nostri si sedettero intorno ad un tavolo, il tavolo era a forma di torta e la torta era a forma di penisola.

Quello che sembrava essere il capo, nonostante l’età avanzata, non aveva un capello bianco: era calvo. Silvio e Bettino decisero in seguito di imitarlo: si acquisisce l’aria da vero capo e non si spende un cazzo in shampo! L’accordo venne fatto e i due amici tornarono indietro. “Chi trova un amico trova un tesoro” recitava il vecchio detto. “Chi trova un tesoro, trova un casino di amici e amici degli amici “ aveva detto il vecchio siciliano. Appena superata la frontiera italiana, si fermarono a mangiare in un grill: la nostra cucina era certamente migliore. Ordinarono pollo e patatine: il pollo era una merda e veniva dal Belgio, le patate dalla Germania, l’olio per la frittura da un autoricambi. Bettino tentò il solito giochetto per non pagare: “Settantamila lire per due porzioni di pollo?! Ma chi è quel deficiente che ha fatto fuori un animale così prezioso?” il gestore li inquadrò subito e li lasciò andare. Abbassavano la media del locale. Alle porte di Milano l’auto li mollò di nuovo. Proseguirono a piedi, ma cominciò a diluviare. Cercarono riparo dentro un negozio di ombrelli, guardando per aria e fischiettando vaghi, fingendo di ignorare il proprietario che li puntava. Tipico. Gianni e Pinotto gli facevano una pippa! Tornarono alle rispettive occupazioni: Silvio ad accapparrarsi terreni agricoli e Bettino a cambiare, quasi legalmente, la destinazione d’uso.

Qualche anno dopo, Bettino venne invitato a Roma al congresso del Midas. Lo disse subito a Silvio che, da giovanotto magro coi capelli grassi, si stava trasformando in un grasso signore... uomo, via! senza capelli. Silvio, dall’alto della sua cultura, spronò l’amico: “Al Midas?! Il famoso re! Vai, vai, così impari i trucchi e tutto quello che tocchi diventa oro!” E così fu. Al congresso del Midas, che era un albergo, il grosso Bettino divenne segretario del PSI.

Imparò i trucchi e cominciò a toccare tutto. Toccò anche un’aspirante attricetta, una certa Anja. Lui diceva di essere innamorato e, siccome l’amore è cieco, si aiutava tastando.  Lei era molto bella. “Sei una visione! La mia visione.” le diceva. E tastava. Visione, visone, anelli, pièd a terre...

Tocca oggi, tocca domani, ad Anja  toccò pure GBR. “Sei la mia televisione!” esclamò lei. E lui toccava e foraggiava. E la gente chiacchierava. E ogni volta che lui tornava a Milano dalla moglie, Anna gli correva incontro gli buttava le braccia al collo. E cercava di strozzarlo. Intanto ebbero tre figli: Bobo, Bubu e Yoghy. Ma lui, invidioso di Silvio che millantava scopate a destra e a manca, cercò di scoparsi Manca, almeno quello, promettendogli la Presidenza della Rai. “C’è un bel cavallo all’ingresso” gli diceva. Manca capì un cazzo e si iscrisse all’ippodromo di Tor di Valle, per prepararsi al compito. E’ ancora lì che cavalca. Bettino, ormai grasso e pelato come un vero capo, diventò Presidente del Consiglio. Cercò anche di scoparsi qualche nana o ballerina del suo éntourage... niente da fare. Il suo piccolo pisello si dissociava. Come tutti i suoi servitori anche lui era sempre a capo chino e piegato in due.  Quindi non si ciulava. Ripiegò sul suo ruolo di statista. Promulgò leggi avveniristiche: aumentò per decreto le tariffe alberghiere invernali nelle località marittime, d’inverno le notti sono più lunghe, quindi...  Comprò casa a S.Moritz e decretò che avrebbe dovuto nevicare nel mese delle sue ferie; aumentò, naturalmente: benzina, sigarette, pane, pasta, bolli, tasse, etc. Conobbe un avanzo di balera, grasso e unto: un certo Gianni de Michelis e, siccome questo parlava veneziano e non si capiva un cazzo di quello che diceva, lo nominò ministro degli esteri. Così, tra stranieri si sarebbero capiti.

Studiarono insieme un piano di aiuti al terzo mondo. Gianni prendeva malloppi di miliardi e correva in Africa, si inchiappettava qualche negretto: per venire incontro ai suoi bisogni, poi da lì volava in Svizzera e depositava i soldi in conti cifrati. A nome suo e di Bettino. Stanco ma felice, correva a fiondarsi in qualche discoteca alla moda. Con tutte le stragi del sabato sera, lui non ci rimase mai. Alla gente sarebbe andato bene che si schiantasse contro qualche platano anche di venerdì... Un giorno, Bettino, tornando in incognito da casa di Anja a bordo della sua auto, sbagliò quattro volte uscita sul raccordo anulare. Dopo sei ore di giri a vuoto, chiese informazioni ad una famigliola, coniugi e tre figli, che faceva colazione sul prato di un’aria di sosta: “Scusino, per andare in via del Corso?” Si avvicinò il capofamiglia, alto, allampanato e con l’aria intelligente; l’uomo si chinò verso il finestrino e si mise a piagnucolare: “Ci aiuti, signore. Ci siamo persi. Siamo qui dal viaggio di nozze...” Bettino si commosse e prese a lavorare con sé quel fulmine di guerra: si chiamava Ugo Intini. Intini non andava d’accordo con Signorile, un vice di Bettino. Un giorno vennero alle mani. Ugo mise le mani intorno alla gola di Signorile e giù schiaffi e pugni! Di Signorile, naturalmente, che aveva le mani libere. Bettino fu costretto ad accompagnare il malridotto Intini al Pronto Soccorso. Andò a parlare personalmente col medico. Il dottore era comunista e, riconosciutolo, gli sparò: “Se ci sono punti da applicare, un milione con anestesia e mezzo milione senza.”

“ Prendo la seconda offerta - fece Bettino - mica è per me!”

Divenne amico di numerosi stilisti: Trussardi, Versàce (ma lui lo chiamava familiarmente Vèrsace)... Il primo gli regalò un manichino parlante, che lui battezzò Claudio e ne fece il suo vice. Doveva avere un qualche difetto di fabbricazione, però,  perché fumava molto e aveva sempre le pupille sgranate. Lo mandò da un famoso tecnico a Malindi, ma Claudio fumò pure laggiù. Lo stilista preferito di Claudio era Volta - Gabbana. Per il dispiacere, Bettino prese ad  ingrassare troppo. Un amico gli consigliò la dieta del fantino e lui cominciò a mangiare cavalli. Parlava alla tv ed aveva molto appeal. Prendeva molto. Nemmeno De Lorenzo e Pomicino insieme prendevano quanto lui. Inventò anche un modo di parlare con molte pause, che servivano per inserire gli stacchi pubblicitari. E tutto ciò che toccava diventava oro.

I suoi domestici pulivano i vetri con foulards di Yves S. Laurent e li gettavano dopo l’uso. Rivedeva spesso Sandra e se la portava nel suo appartamento. Lei gli raccontava di tutti quelli che l’avevano scopata e lui si addormentava felice. Intanto Silvio, grazie agli amici, stava ampliando l’impero televisivo e non solo: quando e dove c’era possibilità di una legge favorevole a qualche business, Bettino lo avvertiva e lui ci si ficcava. La società andava a gonfie vele. Ormai era un’ onorata società, con succursali in tutto il mondo. Bettino era ricco e famoso. Potentissimo. Tranne che dal lato virile:nonostante si dicesse che avesse tre coglioni, come l’antico Bartolomeo Colleoni. In realtà, era pieno di coglioni, soprattutto nel suo éntourage. E nella direzione nazionale del partito. Ogni riunione veniva preceduta da una coloratissima e chiassosa parata, con gente sui trampoli, fanfàra, ragazze pon pon e ragazze pon pin. Una marea di mariuoli. Gli combinarono tanti e tali di quei casini che, alla fine, lui per non vedere le porcherie che combinavano i suoi decise di andarsene in esilio. Come l’Eroe dei due mondi. Erano molto simili: Garibaldi aveva fatto i mille, Bettino i mille miliardi. Garibaldi aveva creato l’unità, Bettino aveva distrutto l’Avanti.  Garibaldi aveva accanto a sé Anita, l’eroina, Bettino aveva Anja, e tutt’intorno la cocaina, il marocchino, e tanta buona erba. Garibaldi aveva detto OBBEDISCO! Bettino diceva OBBEDITE! Garibaldi era amico di Mazzini, Bettino era amico di Boldi. Garibaldi era andato a Marsala, lui andava a Chivas e Champagne. Troppe analogie. Non aveva nulla a che spartire coi suoi! Infatti si prese tutto lui e se ne andò per la tangente. Ad Hammamet.

 

( Plico arrivato in busta anonima da casa Forlani. N.d.A.)

 

 

 

 

 

Capitolo ottavo

 

GIULIANO FERRARA

 

 

Figlio di genitori per bene (ancora oggi suo padre è costretto ad uscire con la barba finta, un cappello a tese larghe calato sugli occhi, occhialoni scuri e la sciarpa fino al naso, anche d’estate), nasce benestante e molto coccolato.

Sua madre non esce mai, ordina via telefono e si fa portare la spesa a casa, si trucca da filippina per andare ad aprire e spende un casino di soldi in più: si sa, le consegne a domicilio sono micidiali!

Giuliano è sempre stato intelligentissimo, fin da piccolo. Ad ogni frase, concetto o pensiero intelligente, che usciva dalla sua boccuccia, gli veniva regalato un bon bon: cioccolattino, lecca lecca, buondì, gianduiotto, bignè...

E la sua boccuccia, d’incanto, diventava il traforo del Monte Bianco.

Tutti i familiari, i professori, i vicini, i bottegai; tutti viaggiavano con uno zaino pieno di dolciumi, in attesa di una frase o concetto o pensiero intelligente del piccolo-grande Giuliano, ed erano pronti a ricompensarlo. Era talmente intelligente (e premiato), che a tredici anni pesava centotrenta chili!

Dieci chili per ogni anno di età, era in perfetta media indiana. Come vacca...

Se questa tecnica del premio in dolci per ogni uscita intelligente venisse applicata oggi, o fosse stata applicata negli ultimi dieci anni, oggi Giuliano peserebbe venti chili. E Funari lancerebbe subito una colletta.

Già dal liceo si distinse come  opinion leader ed attivista politico.

Come direbbe il saggio:  “Aveva sempre il coraggio delle opinioni altrui”.

Ebbe (e questo lo sanno tutti ed esistono dei famosi documenti fotografici) numerosi scontri coi celerini. Tutti i ragazzi scappavano, davanti alle vigorose cariche della polizia manganellata; a Giuliano, un po’ per la sua mole e un po’ per la sua leggendaria intelligenza, i poliziotti davano  sempre qualche centinaio di metri di vantaggio. Era da poco iscritto all’università e già contava parecchio nel PCI. Saliva rapidamente la scala gerarchica. Meno rapidamente la scala di Botteghe Oscure. Però, se aveva una riunione per le sei al secondo piano, alle tre era già sul primo scalino ed arrivava sempre puntuale. L’ascensore gli venne interdetto: non dai compagni, ma dal collaudo della ditta fabbricatrice. Il trabiccolo non avrebbe mai sopportato i suoi trecento chili!  Assumendo dimensioni  sempre più monumentali, aveva scarso successo con le ragazze. Uscivano con lui solo per andare a Fregene e, grazie alla sua ombra, risparmiavano l’affitto di ben sette ombrelloni. I maligni dicono che si buttò sui ragazzi. Ma i rgazzi uscivano con lui per lo stesso motivo. Ed io che lo conosco bene vi posso garantire che non è vero. Giuliano non ha mai avuto pulsioni sessuali. Credo anzi che non abbia mai nemmeno visto il suo pistolino. Se ce l’ha... Ma la calunnia, si sa, è un venticello. Per evitare chiacchiere controproducenti, la direzione del Partito lo spedì a Torino con mansioni direttive. A Torino, dopo un po’, ricominciarono le allusioni, le frecciatine, le falsità.  Morale: si ruppe... l’anima per tutte quelle stronzate: la sua mole contro la Mole Antonelliana. Perse lui  e si buttò nel PSI.  La stella di Craxi rifulgeva e dentro quel partito c’era di tutto: come in qualunque fiume italiano. La sua intelligenza superba lo portò presto in vetta. Bettino ascoltava i suoi preziosi consigli. Giuliano ascoltava i preziosi consigli di Lino Jannuzzi. Lino Jannuzzi ascoltava i preziosi consigli di Licio Gelli. Licio Gelli ascoltava i preziosi consigli di Andreotti. Andreotti ascoltava i preziosi consigli di Craxi e così il cerchio era chiuso. Ma Giuliano, vedendo tutte quelle merde di socialisti craxiani che non gli arrivavano alle ginocchia e tutti quei miliardi che svolazzavano intorno al garofano, decise di consigliare a Bettino di consigliare a Manca , di consigliare al capo dell’ufficio scritture della Rai... Il resto lo sapete. Arrivò subito un bel contratto miliardario ed un programma con un titolo ch’era tutto un programma:”L’ISTRUTTORIA” !

Qualche anno dopo, il solito maligno ebbe a dire: “Portasse sfiga?!”

Scappato Craxi, Giuliano restò in eredità al suo socio. Berlusconi, come in tutte le eredità, si trovò a dover pagare salatissime tasse di successione.

I miliardi d’ingaggio di Giuliano ed il suo peso crescevano di pari passo.

Ormai pesava quanto un tre alberi carico di piombo  e, nonostante questo, stava a galla. Non certo  per il  motivo che pensano i maligni...

La crescita degli ingaggi era inversamente proporzionale ai dati d’ascolto.

Ma questo non è colpa sua, sono gli italiani che non capiscono un cazzo.

Con l’avvicinarsi minaccioso di Di Pietro, Berlusconi scese in politica e Giuliano salì a Palazzo Chigi. Anche lì, lo stesso problema di Botteghe Oscure. Piano piano, fiato grosso come il suo culo, però arrivava sempre puntuale al tavolo del Governo. Così come sempre puntuali sono stati i suoi lancinanti attacchi e le sue pronte smentite.

Ministro dei rapporti col Parlamento. E subito i maligni:

“Beh, che altro ministero potevano dare ad uno così? Il Parlamento è pieno di membri... L’80% dei deputati sono maschi... Escludendo,naturalmente, il famoso regista miracolato, il famoso critico dal ciuffo ribelle, e qualcun altro di Forza Italia e CCD...”  La verità è che come tiene i rapporti mio nipote, nemmeno Prodi con la sua Bianchi! Certo, ha litigato coi giudici, coi giornalisti, con Scalfaro, con il CSM, coi comunisti, con Bossi, con Rosy Bindi... però, quanti miliardi di persone ci sono al mondo con le quali Giuliano non ha mai litigato?

Senza contare che, per mio nipote, ogni invito alla rissa è grasso che cola!

 

 

 

Con tanto amore ( alla faccia vostra)

zia Dumba

 

 

 

Capitolo nono

 

 

 

ROBERTO FORMIGONI

 

 

Nessuno è  ancora riuscito a spiegarsi come non sia diventato cieco.

Quand’era ragazzino e ancora non esistevano gli scottex o i clinex, la sua cameretta era piena di calzini, mutande, maglie della salute e fazzoletti, tutti appiccicaticci e nascosti nei posti più impensabili.  Credo che sia stato il più grande smanettatore del secolo. Io posso parlare perchè sono la laica della famiglia. Insegno educazione sessuale da trent’anni e ho scritto valanghe di libri e trattati sull’argomento. Io sono laica, lui è laido. Intorno ai diciotto anni, ebbe le prime pulsioni  nei confronti delle ragazze. Di bell’aspetto, pulitino e saputello, faceva subito colpo. Si fidanzò con Marina, una splendida ragazza di Lecco (come noi); ma il fidanzamento durò venti minuti: lui aveva subito cercato di possederla sul divano. Ci eravamo appena seduti, finite le presentazioni, e mentre si prendeva il thè coi rispettivi genitori. Noi tutti lì in salotto a conversare amabilmente e lui, come un matto, le si è lanciato furiosamente addosso, mulinando le mani come tentacoli e sbuffando come una locomotiva. Scapparono via. Si presero tutti i pasticcini  e ci levarono anche  il saluto. Poi fu la volta di Iside. Una moretta, sempre di Lecco, che studiava teologia. La corteggiò per un mese o due ed ottenne il primo appuntamento. Andò a prenderla sotto casa per portarla al cinema. Ma quale cinema?! Appena lei apparve sul portone, la inchiodò allo stipite e, sollevandole una coscia, cercò di penetrarla a raffica. Come aveva visto fare nei film di Michael Duglas. Douglas era improbabile, lui era implacabile.

Fu portato via a forza e malmenato da alcuni militari in libera uscita. Tutto dire... Lei, fortunatamente, non sporse denuncia, ma non volle più vederlo. Lui stette per qualche mese coi due militari, poi tornò più assatanato di prima.

Conobbe una biondina del suo stesso corso, Ausilia, sempre di Lecco.

Sembrava cambiato. Quando lei accettò di uscire con lui, si fece accompagnare a casa nostra da suo padre, visto che sarebbero dovuti andare ad una mostra che si teneva in una galleria d’arte nel nostro stesso isolato. Arrivò puntuale, Roberto le andò incontro e la aiutò a scendere dalla macchina; salutò compitamente il padre e, appena costui si fu allontanato, capottò la ragazza sul prato. Le saltò addosso e, cercando di bloccarla, con la schiuma alla bocca gridava: “Sei mia! Sei mia! Voglio un buco::: un buco!” Si scatenò un pandemonio: vicini che si affacciavano, cani che abbaiavano e  saltellavano intorno a loro, lei che strillava come un’aquila, sirene di antifurto che impazzivano, gente per bene che votava Forza Italia...

 

 

Fummo costretti a svendere la casa ed a cambiare quartiere.

Passò altri sei mesi di tremendi smanettamenti. Nel nuovo quartiere non conosceva ancora nessuna ragazza. Poi, una sera, tornò a casa col sorrisetto di chi la sa lunga e ci annunciò un nuovo filarino. Si trattava di  Silvia, una giovane formosa e intelligente. L’aveva invitata a pranzo da noi per il sabato successivo. Silvia arrivò alle dodici, carina, semplice ed elegante. Portò un bel mazzo di fiori alla madre di Roberto, mia sorella.

Lui, frastornato dalle nostre raccomandazioni,  giurò che si sarebbe comportato a modino. Tutto andò a meraviglia, durante il pranzo. Poi Roberto invitò Silvia in camera sua, per mostrarle la collezione di santini e di tutti i nuovi simboli della vecchia DC (ore di lavoro per gli occhi...)

Noi ci guardammo subito allarmati, ma lui ci tranquillizzò: “Lascio la porta aperta - disse- nessun problema”. Salirono di sopra e noi restammo a sorseggiare il caffè, con le orecchie ben  tese. Fu questione di un attimo: di sopra si scatenò un terremoto infernale, sembrava una carica di bisonti: mobili spostati, armadi che cadevano, vetri infranti, acuti  da soprano che vede Pippo Baudo nudo ... il tutto sovrastato dalle urla belluine di Roberto:

“Stai ferma! Non scappare! Me la devi dareee! Non voglio più essere vergine, cazzoooo! Perchè devo essere ancora vergine a ventidue anni?! Non voglio finire come Sgarbi! Ti voglio sfondareeee! Vieni qui, troiaaaa!”

Cambiammo di nuovo quartiere. E cambiammo cognome.

Ci facemmo chiamare  Poggiolini, ma le cose non migliorarono. Per noi.

Lui, invece, si trasferì a Milano e si iscrisse alla Cattolica.  “Con tutte quelle bigotte arrapate - deve aver pensato - scoperò come un riccio!”

Invece la Cattolica è un’università come un’altra e lui riempì Milano di scottex appiccicaticci. Dopo una diffida da parte dell’Assessorato alla N.U., prese a buttare scottex e clinex usati, sempre più lontano. E’ arrivato fino al Cervino: che sembra nevicato anche d’estate e lo mettono sulle cartoline. Dopo una serie di fermi e denunce a piede libero,  per atti osceni in luogo pubblico, venne affidato alle cure di don Giussani e si calmò. Si trasferì nella casa -convento vicino alla Fiera e, con altri sette compagni, ha fatto voto di castità, obbedienza, e povertà. Tutte le mattine alle sette: voto a Berlusconi e  Lodi al Signore; poi meditazione. Pranzo - dopo l’Angelus - alle tredici (frugale: perché cucinano loro e fanno delle gran merdate), e la sera i Vespri (dopo un pasto ancora più frugale del pranzo: visto che si tratta sempre degli avanzi schifati la mattina).

Ha messo la testa a posto, direte voi. Mah!... Da quando ha conosciuto Berlusconi ed ha preso a frequentare Arcore e tutte quelle sgallettate, mi sembra peggiorato. Prima ha deciso di farsi crescere le tette: perché voleva fare la velina  a Striscia la notizia (Silvio chiacchiera, lui ci prova: almeno, quelle scopano davvero! Con altri.). Meno male che ha mandato uno dei domestici di Berlusconi, un certo Tajani,  a comprare il silicone e gli estrogeni! E,  per quant’èstro...geno  quello, chissà che cavolo gli avrà comprato! Fatto stà che anziché crescergli le tette, gli è cresciuta la barbetta. Mi dicono che la sua stanzetta alla casa-convento è piena piena di scottex e clinex appiccicaticci che, come apri la porta, ti cadono addosso a valanga.

 

Non sarà un malinteso senso... una reminiscenza di “Comunione” (mano-membro) e “Liberazione” (vedi clinex)? Già comincia a portare gli occhiali da vista con le lenti molto spesse ed ha ordinato un bastone bianco...

Segue Silvio ciecamente e comincia anche a cantare  “Georgia on my mind” .

Vabbè, almeno uno che canta tra i complici di Silvio, ci vuole: sennò Borrelli fallisce!

 

 

P.S. Spero che questa mia intervista non spinga Riccardo Schicchi a chiedermi  qualche  numero (telefonico e non)  di Roby.

 

Con simpatia

 

 

zietta  Ombretta F.C.

 

 

N.B. F.C. stà per Fatti i Cavolacci (Tuoi). Tanto per.

 

 

 

 

Capitolo decimo

 

 

GIORGIO  FORATTINI

 

E’ l’unico disegnatore “satirico” che può vantare la “nuova” destra.

E’ anche l’unico che si può permettere.

La nuova destra, potentissima, può pagare qualunque cifra per  qualunque “firma”, ma non potrà mai comprare un cervello: perciò si tiene Giorgio.

E si deve accontentare. Ma loro ridono!!! Giorgio fa ridere solo  Previti, Tajani, Er Pecora, Michelini, Fisichella (che ride tecnicamente), Poliborsone (visti i contributi erogati agli amici), Daniela Fini (diversa dal marito solo se tiene i capelli sciolti e cerca di fare un discorso compiuto), Gustavo Belva, Porcu ( il deputato sardo che di nome fa  Carmelo ma, siccome è nato per miracolo, suo padre voleva chiamarlo DIO. E il parroco locale ha avuto il suo bel da fare per convincerlo che non era proprio il caso...). Insomma, Giorgio fa ridere le persone semplici o di bocca buona. Ninni Pingitore (quello di Champagne), che ha il senso dell’umorismo di una sedia a rotelle, addirittura lo copia!!! E Giorgio si guarda allo specchio e piange (perché scopre di essere tutti i giorni e SEMPRE soltanto Giorgio Forattini... Mai che si svegli una volta: Ellekappa, Altan, Quino... MAI!

Poi si guarda i saldi dei suoi conti nella varie banche e ride. E come ride!

E corre a disegnare e a scrivere delle nuove opere indelebili come i cerchi nell’acqua. Come le idee della Maiolo. Come i giuramenti del Berlusca.

Come dimenticare le sue fulminanti battute? Una su tutte:

“ IL POTERE LOGORA CHI CE L’HA” nel fumetto di Andreotti in spiaggia,

su una sdraio, ( 28 agosto 1979)...

Notate l’arguto gioco di parole, l’azzardato calembour?

Per non parlare della Sardegna disegnata a forma di orecchio mozzato... O dell’ultima (oggi 7 aprile 95):Giudice D’Ambrosio a B. “Me ne torno a Napoli, se tu non canti!” Berlusca:” Allora ti canterò: vedi Napoli e poi muori!”

“Di una raffineria unica!” direbbe Funari. Giorgio non fa ridere nemmeno se scivola e si rompe una gamba!

 

Anch’io ho un disegno che ti riguarda, caro Giorgio, fatti trovare distratto per strada... vedrai se non ti metto sotto con la Jeep!

 

 

 

 

VERGOGNATI !!!

 

Zia Fortebraccia

 

 

 

 

Capitolo undicesimo

 

SERENA DANDINI

 

Intorno al 1980  faceva la  segretaria di redazione per un programma radiofonico. Stava già imparando a rispondere bene al telefono (e anche a fare le telefonate senza incastrarsi le dita nei buchi dei vecchi dischetti selezionatori...), quando venne folgorata sulla via del PCI. Dopo anni di appostamenti alle porte di Montecitorio, dietro gli angoli di Botteghe Oscure e agguati ai “compagni” importanti lungo i corridoi di viale Mazzini, eccola finalmente in video!    “ Cosa c’è dietro l’angolo?” chiedeva Costanzo.

“La Dandini che vuol fare la show girl!”  rispondevano  in coro i comunisti potenti. Quanta fatica! In realtà, la Dandini voleva fare i dindìni...Tv o no.

I compagni, sconfortati e “sbomballati”,  le diedero  un programma tutto suo, mica cazzi! Un programma, copiato  (male) da mille altri programmi, dove lei copiava (male) Renzo Arbore. In compenso, i suoi colleghi, poveri disoccupati e ricchi raccomandati, copiavano (malissimo) i vari comici: Verdone, Benigni, Salis. E copiavano le macchiette originali: Fede, Berlusconi, Matta Flavi, etc.(che facevano ridere molto, ma molto, più dei  loro patetici epigoni). “Avanzi” ( come titolo) era l’unica cosa azzeccata: gli avanzi si buttano! L’hanno cambiato! Nonostante i flop, Serena divenne ricca e famosa, grazie a questi programmazzi dove solo la sigla costava quanto un anno di programmazione della BBC. Senza mai scrivere o dire una sola battuta decente, lei ed i suoi compari, si sono spacciati per quattro anni come “comici cult”. Ma, nonostante una perenne-capillare-imponente-estenuante campagna stampa, il loro - diciamo così - show è diventato cult a malapena in un quartiere di Roma; con telespettatori inferiori agli inquilini di qualunque condominio che si rispetti.

Nonostante l’insuccesso continuo, lei e i suoi compagni sono rimasti i ragazzi semplici di una volta. E, nonostante le loro incerte e costosissime (per i contribuenti) esibizioni si vedessero più che altro a Lourdes e a Fatima, sono riusciti nel loro intento: far vincere le elezioni del 27 Marzo ‘94 a Berlusconi e Fini. Obiettivo raggiunto! Torna a fare la segretaria, ti prego, e stai più vicina a tua figlia Adelina. Non puoi usarmi come baby sitter a vita! La mia pazienza ha un limite. E pure quella degli italiani onesti: più vai in tv  e più le destre avanzano. Fai stare serena anche me, ti prego. Ho fatto la resistenza!

 

Un abbraccio da zia  Nilde.

 

P.S. Tua figlia Adele ormai ha quasi tredici anni, cosa continui a mandarle i sonaglietti  colorati e i pannoloni?! Comincia a mandarle pannolini e pillole!

E vienitela a riprendere. O portala da Boncompagni.

 

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Capitolo Dodicesimo

 

 

GIANFRANCO  FUNARI

 

 

Disoccupato cronico (per vocazione) e cabarettista nato, si accorge di far ridere da subito.  Fin da quando, ragazzino, lo mandavano a fare le commissioni: non è mai tornato a casa con quello che avrebbe dovuto comprare! Già da allora parlava in maniera improbabile:” Duo etti do martorella” (Due etti di mortadella); “Uno canfusiona di Vics” ( Una confezione di bustine per acqua Vichy); poi, dopo gli scappellotti a casa e le risate dei bottegai, se ne usciva indignato:” Ciò la seziziano che ma state a pijà per culo!” (Ho la sensazione che mi stiate prendendo in giro).

Lui parlava seriamente e tutti ridevano. Era nato un comico! Involontario, ma comico. Si sentiva a suo agio solo ai Castelli Romani. Quando i suoi lo mandavano in vacanza presso degli zii che avevano un podere. Lassù nessuno lo prendeva in giro. Anche perché non parlava. Anzi, l’arrivo del piccolo Gianfranco era atteso, ogni anno, come un felice avvenimento! Appena arrivato, non faceva in tempo a scendere dalla corriera che  uno dei cuginetti più grandi gli prendeva la valigia e l’altro, ancora più grosso e massiccio, lo stendeva con uno sgambetto - lo prendeva per i piedi - tirava - e, usando i dentoni del piccolo Gianfranco a guisa di vomere, cominciava ad arare i campi. Certe volte lo usavano anche per sarchiare. Poi mio nipote crebbe (meno dei suoi denti) e se ne andò a Milano. Cominciò a fare il rappresentante di aspirapolvere.  La sera al Derby. Non vendeva un cazzo, in compenso tutti ridevano, di giorno, quando faceva il porta a porta per la città. Partecipò anche ad una trasmissione televisiva, con Cochi e Renato: ancora oggi all’ufficio scritture della RAI non capiscono che cazzo di nome c’è scritto su quel contratto, nè che qualifica avesse il tizio. Il pubblico non si è mai nemmeno accorto di lui e l’ha passata liscia. Fallito come rappresentante, fallito come televisivo, decide di suicidarsi e sceglie la roulette russa. Naturalmente non riesce nemmeno a fare quello, però viene affascinato dalla roulette. Prende una decisione storica: ”Vojo fà’r crupè!” Frequenta un corso per croupièr, a Poggio Mirteto, e, tramite uno zio baro di Tony Binarelli, trova lavoro a Saint Vincent. Con grande stupore suo e dei suoi superiori riesce a comunicare con tutti i clienti: nessuno, a qualunque nazionalità appartenga, capisce un cazzo di quello che lui dice. Era nato un grande comunicatore! Ma, siccome al casinò serviva un croupièr, dopo alcuni miliardi di perdite lo cacciarono. Sconsolato, decide di tornarsene a Roma. Va a fare il biglietto, l’impiegato capisce aglio per cipolla, e Gianfranco si trova ad Hong Kong. In effetti, gli era sembrato un po’ troppo caro il biglietto. Una volta laggiù, chiede disperato ai passanti: ”Ndò cazzo stò?”,  che nella lingua locale significa:

“ Sono un noto croupier disoccupato e cerco lavoro anche part- time.”

 

Fortunatamente, Hong Kong è piena di casinò e di uomini gialli coi dentoni da castoro: sicché Gianfranco sfuggiva agevolmente ai datori di lavoro inguaiati dalla sua imperizia e trovava facilmente un altro posto. Una sera, mentre era indaffarato come al solito  ad ingoiare palline e far roteare fiches (ancora oggi non ci ha capito un cazzo di come funziona la roulette...), entra nel locale un distinto signore in canottiera: Paolo Pillitteri. I due fanno amicizia, si ubriacano insieme, cantano “Barcarolo romano che te brillet da luntàn...”, per le strade del centro; finchè la buoncostume non li sbatte in guardìna per disturbo alla quiete pubblica. Passata la sbornia, sei o sette giorni dopo,  Pillitteri si rende conto che Gianfranco parla così anche da sobrio. Mosso da compassione, decide di portarlo con sé a Milano e chiede a sua moglie se può  tenerlo. Sua moglie, dolce e disponibile come tutti i Craxi, accontenta il marito ed appronta una specie di bivacco per l’ospite. Non sa cosa sia nè a che serva, ma non vuole far torto al marito. Gianfranco non sporca, mangia con le mani, fa la cacca nel water  e la racconta: ma tanto nessuno capisce niente di ciò che dice e lui la sfanga così per qualche anno. Poi, come ha raccontato Bobo e ci ha anche vinto una causa in tribunale (l’unica causa vinta dalla famiglia!), sua zia si stufa e prega il marito di disfarsi della “cosa”.

Paolo chiede consiglio a Bettino e a Tognoli e, tutti insieme, decidono di parcheggiare lo sfortunato essere insieme agli altri avanzi della società craxiana: a RAIDUE. Arrivato in viale Mazzini 14, Roma - Gianfranco chiede di incontrare Sodano. Giù all’ingresso, pieno come sempre di  postulanti professionisti, nessuno capisce una mazza del blaterare dell’uomo. Prova ad interpretare i fonemi anche una insegnante di sordomuti, chiamata per la bisogna: proprio quella che traduce, a gesti,  i TG per i non udenti. Niente da fare. Si formano due scuole di pensiero: un gruppo  crede di aver capito che qualcuno fuori sta cercando di rubare una macchina; l’altro è certissimo che si tratta di un reduce di guerra, menomato, che deve partecipare ad un programma di Bisiach. Gianfranco perde la pazienza e s’incammina per i corridoi, seguìto dalla folla berciante. Finiscono tutti quanti in uno studio, dove c’era Marzullo in diretta, ma nessuno se ne accorge e le telecamere riprendono quella baraonda: era nato “A BOCCAPERTA”! Un trionfo!

Da lì alla Fininvest il passo è breve. Come tutti gli scoppiati presi dalla RAI: meno ascolto-più soldi! Politica aziendale PSIninvest.  “ C’ho i mijardi!” è l’unica cosa che Gianfranco riesce ad esprimere in maniera intelliggibile a tutti. Non a caso fa i programmi coi politici i quali, da che mondo è mondo, parlano in maniera che non li capisca nessuno. Perciò s’intendono a meraviglia. L’unico rammarico di mio nipote è che possiede quattro Bentley. Ogni volta che va a comprarsi la macchina che piace a lui, quel figlio di mignotta dell’autosalone fa finta di non capire e gli “ammolla” un’altra costosissima Bentley. Lui vorrebbe tanto una Lancia carrozzata Bertone...

 

 

Un abbraccio unto di mortadella dalla tua  zie

Corallina

 

 

 

Capitolo tredicesimo

 

 

ALFREDO  BIONDI

 

 

Nasce già sfigato: una levatrice dislessica gli ficca il termometro in bocca ed il biberòn nel culo. Ma anche lui è dislettico (o dislessico?) dalla nascita e chiede subito un autografo alla levatrice (come se fosse Paola Barale!).

A gesti, naturalmente. Da subito subisce il fascino e la volontà di chiunque.

A otto anni, mentre cercava di ammaestrare una formichina, dovettero ricoverarlo:  perché aveva preso a trasportare pesi e a lavorare alacremente.  Guarito, non gli passò mai più per la testa di lavorare. Veramente, per la testa, non gli passò mai più niente. Mio marito, noto veggente, gli preconizzò subito un futuro da carabiniere. Come saprete, non lo presero. No, non sbagliò i test psicoattitudinali: sbagliò data - luogo - ora - e addirittura  la caserma dove avrebbe dovuto presentarsi. Sbagliò pure la città, ma questo non ha importanza.  Aveva subito fatto amicizia con un certo Carlos, che gli aveva detto di essere un agente segreto e pregò Alfredo di  guardargli le spalle e avvertirlo, nel caso avesse visto qualcuno in divisa nei paraggi, mentre lui entrava a fare delle commissioni urgenti: in qualche banca, in qualche ufficio postale, in qualche supermercato... sempre all’ora della chiusura. Poi usciva di corsa e scappava via. Il giorno dopo, diceva a mio nipote che soffriva di repentini attacchi di cistìte. Secondo me, doveva essere un gran bugiardo, quel Carlos. E forse non si chiamava nemmeno Carlos.

Ma Alfredo, da buon cristiano, è sempre stato molto credulo. Comunque, Alfredino restò fuori casa per due mesi e ce lo riportarono quelli di “Chi l’ha visto?”. Era mancino e brombolòne, già a scuola si faceva fregare tutte le penne di marca, che gli regalavo io, dai compagni: lo covincevano senza sforzo che “quelle erano penne per chi scrive con la mano destra”... in cambio, gli davano Bic esaurite, soluzioni sbagliate di problemi, lo facevano sedere vicino al calorifero guasto (sempre acceso) nei mesi caldi e sotto la finestra cogli spifferi, da novembre a marzo. Sempre da ragazzo, ci ha riempito la casa di oggetti inutili o prodotti scaduti, che tutti i commercianti della provincia facevano a gara nel vendergli. A prezzi altissimi.

Le ragazze gli davano i numeri di telefono “sadici”, anziché i loro: si prese i vaffanculo dall’obitorio, dal becchino, da tutti i centralinisti delle carceri e dai frati guardiani di tutti i conventi della zona:”C’è Luana?” “C’è Gloria?”...

Conseguita la maturità (solo sul pezzo di carta), andò sotto la naja. Gli fecero degli scherzi terribili! Ma mica i nonni?! Le burbette! Le spine appena arrivate! Tant’è che i nonni, mossi da compassione, ogni volta che era in fin di vita, lo difendevano. Dopo la naja, per la depressione, cominciò a bere. Non si è più fermato.

Lui è sempre stato un grande comunista. Ma anche un grande confuso e dislessico. Quando ha deciso di entrare in politica si è iscritto al partito monarchico. Mio marito, noto idraulico comunista, gli ha fatto notare l’errore e Alfredo, subito, è tornato sui suoi passi per riparare. All’ora di pranzo era iscritto al PLI... Come avrete notato, pur essendo di Genova, parla toscano marcato. Ma questo non è dovuto alla dislessìa, no: è stato una volta a pranzo con Zeffirelli ed il “nipotino” del regista, un certo Abdul, e si è fatto influenzare subito! Non ha carattere. Non ha nemmeno memoria: Zeffirelli, in sette mesi, gli avrà presentato una novantina di “nipotini”; e tutti avevano nomi strani: Joshua, Hermann, Gunther, Helmuth, Lech, Christianopulos, Giggi er Toro, Mustafà, Salvatore “lo Squartatore”, Ursus... e nessuno aveva una benché minima affinità con lui. Come di solito hanno i parenti. Tutti questi “nipoti” sembravano però parenti tra loro, infatti avevano tutti un tratto in comune: un enorme “pacco” dentro gli slip. E mica di ovatta, come certi nostri cantanti rock col ciuffo! Meno male che si è fatto influenzare soltanto dall’accento, da Zeffirelli... Lui, per esempio, sta con noi in salotto a guardare la tv? Si alza per andare in bagno, nel corridoio incontra mio marito, noto proiezionista, che gli dice: ”Vieni al cinema con me?” Alfredo si dimentica di andare in bagno e segue lo zio al cinema. E si caga addosso sulla poltrona. Oppure, in agosto parte tutto bardato per andare a sciare e ci telefona, disperato, dopo due giorni: ”Mandatemi i sandali e un costume da bagno. Sono a Rimini... sai, ho incontrato Gino in garage...qui fa caldo e mi sto sentendo male; eppoi i padroni degli stabilimenti mi hanno detto che non sta bene passeggiare in spiaggia con gli sci e lo zaino.”

Si sente per un minuto al telefono con Berlusconi... e subito corre in bagno, si trucca, poi  torna in cucina e ci aggredisce: ”Non vendo un cazzo! Mi consenta, elezioni subito! State consegnando le trenette al pesto ai comunisti! Mi avete tradito! Si era parlato di giugno... di Giugni? Di gnògno?.. Avete fatto il ribaltone anche con l’omelette! Traditori! L’unica che non mi tradisce è Veronica. E mia madre. Di cognome fa Bossi, e allora? Mia madre non è leghista! Ha smesso di legarmi da quando mi sono rivolto al S.Raffaele. Mi deve il culo don Verzè. L’ho miracolato io quello lì! Come Scognamiglio e Dini! Chi cazzo è questa Veronica? Parla!.. E’ un’amica di Sgarbi? Perché quel sugo è rosso come le toghe rosse di Milano? I miei colori sono più neri che rossi... e non c’entra un cazzo il Milan!.. Le mie zie... Le mie gocce... dove sono le mie gocce?!” Una pena.

Cioè... farsi condizionare da Berlusconi! Quello non è riuscito nemmeno a imporsi ai figli!... Me lo ha raccontato mio marito, noto geometra, che lo conosce da quando Berlusca era sposato contro la prima moglie. Nasce il primo figlio e il Cavaliere:” Tu ti chiamerai Piersilvio, noto Dudu.” e l’erede:

“ No.” e Silvio:” Come NO?! Perché?” “ Perché sono una femminuccia e mi chiamerò Marina! Come Ripa di Moana.” A volte, Alfredo ha queste cadute

“ alla Silvio”. Poi gli passa. Queste allucinazioni durano poco. Almeno in questo non somiglia a Silvio. Beve un cicchetto, vede la Madonna, levita, sente le voci...

 

 

Ecco: appena sente le voci, si fa condizionare e cerca subito di imitarle. Diventa patetico perché è allo stesso livello di Sabani: può imitare a malapena le inflessioni, ma la voce è sempre e solo la sua.

Ancora non riesco a capire (e nemmeno mio marito, noto capitòre) come ha fatto Berlusconi a far firmare quel decreto “SALVALADRI” a mio nipote.

Conoscendolo, penso che gli abbia detto sempicemente:”Firma...” e, mentre cercava di inventare velocemente una delle sue famose bugie, Alfredo, senza volontà com’è, abbia firmato e stop. Senza parlare del fatto che, al terzo whisky, avrebbe firmato pure la presa della Bastiglia - l’accordo col terzo Reich e la dichiarazione di innocenza per Riina, Craxi, Gelli, Cossiga e lo stesso Berlusconi! Credulone com’è, ogni sabato, cerca ancora di spiegarci che Silvio è sincero, che il milione di posti di lavoro arriveranno, che le tasse non le pagheremo più (come già fanno i compari di Silvio ), che la Befana è una bella figa e papà Natale ha le sacche piene perché viene una volta l’anno... Poi, lo prendono i nipotini e lo portano a passeggiare sul lungomare: così prende aria. Lo portano in quattro, tipo fermacarte, per non farlo sbarellare più di tanto. Lui, davanti al mare, prima cerca di scorgere Silvio che cammina sulle acque, poi si fa rapire e diventa poetico: ”Vedete, bambini? Vedete quelle due vele laggiù?...”

Naturalmente, la vela è solo una. I bambini si guardano tra di loro e pensano a quanto sia terribile avere un nonno così rincoglionito. Nello stesso momento, milioni di italiani smarriti pensavano a quanto fosse devastante avere un  Ministro della Giustizia così... Ma io lo conosco bene. Ho sempre saputo che lui, più che a Berlusconi, ha sempre fatto il tifo per Previti. Anche perchè è un suo collega. “Lasciatelo fare - diceva - vedrete come verrà fuori.”

Secondo mio marito, noto straveggente, più che venire fuori, Previti andrà dentro.

“ Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare.” insisteva Alfredo.

“ Sì. Ventitré coltellate!” rispondeva mio marito, noto romanista, citando Flaiano. Sarà che io gli voglio bene, ma gli perdòno anche tutte le gaffes che fa: come quando, per difendere il suo amico Pannella, dice:” E’ “fatto” così...”

Dicono che sembra tonto, ma lui non è capace di fingere. Credetemi.

 

 

firmato:  la zia di via Prè (citofonare Sonia)

 

 

 

 

Capitolo quattordicesimo

 

 

ALESSANDRO  MELUZZI

 

 

Il suo  nuovo padrone si dice Unto del Signore. Lui è unto e basta.

A Mirafiori lo aspettano per una messa a punto, per una messa in...

Per una messa e basta?

 

 

Io sono sua zia, ho settant’anni e ballo sui cubi  in una discoteca. Sono sempre stata un po’ allegrotta, ma ho sempre avuto il coraggio delle mie azioni. Non ho cambiato idee, partiti, fazioni. Non ho mai avuto padroni.

Mi devo vergognare io?

 

 

zia Orsola

 

 

 

Capitolo quindicesimo

 

PAOLO “ANGUILLA” GUZZANTI

 

 

La summa dei riciclati, dei leccaculo, dei mendicanti della raccomandazione. Anche formato famiglia.  Dopo venti super-raccomandazioni ed altrettanti flop televisivi, ha cominciato a chiedere, implorare, pretendere, raccomandazioni per i figli e persino per i futuri nipoti. Per Cossiga è il miglior giornalista italiano. Così come Carnevale era il miglior giudice... poi si è visto. L’unica cosa di utile della sua vita l’ha fatta da soggetto passivo: ogni volta che vince la Nazionale di calcio, gli mettono un paio di pantaloni verdi, una camicia bianca, un bastone nel culo... e lo sventolano. Finché avrà i capelli rossi funzionerà. Quando si romperà, useranno Biscardi. (Finché continuerà a pennellarsi).

 

( fax giunto anonimo da La Stampa. E’ firmato “la redaZIOne”,                                                 ma non ci credo. N.d.A.)

 

 

 

Capitolo sedicesimo

 

ANTONIO  TAJANI

 

 

 

Capitolo diciassettesimo

 

 

MARCO  TARADASH

 

Perché parlare di lui? La sua capretta è più intelligente: invece di brucare l’erba... la fuma! Lui è sempre stato segnato dal livore e dai lividi, già da piccolo. Specialmente sulla schiena. Se continua ad andare in televisione a sparare tutte quelle cazzate, appena il piccolo Muccioli mi fa uscire, torno a casa e gli sparecchio la faccia. Ma forse è così isterico perché gli è morta la bambola di gomma che gli ha regalato Pannella.

La signora Canna mi ha detto che è stato partorito da quel vecchio culo triste di Giacinto Pannella. Dice che si è slabbrato in un peto ed è uscito fuori il tuo nome: ta-rà-dashhhhh!

 

zia Maria Giovanna

 

 

Capitolo diciottesimo

 

PIER FERDINANDO  CASINI

 

E’ il migliore, tra le più inutili e stupide teste di cazzo. E’ nato che era il miglior  prematuro. A scuola è sempre stato il miglior ritardato. Con le donne è sempre stato il miglior eiaculatore precoce. In società è sempre stato il miglior perdente. Come portaborse di Forlani è stato il miglior voltagabbana.

Nel governicchio Berlusconi è stato il miglior peggiore portavoce del suo gruppo: rispetto a D’Onofrio azzecca i verbi, ma non azzecca mai un concettoe sbaglia i tempi. Dovrebbe parlare una volta sì e una no.

E, quando gli tocca, è meglio che stia zitto.

L’acronimo CCD stà sicuramente per: Che Cazzo Dici?!

Si è pure fatto ritrarre nudo sui giornali. Quelli seri hanno censurato con una pezzetta: naturalmente sul suo viso.

Non dovrei dirlo io che sono sua zia, ma sua madre non ci parla da anni; suo papà dice di non conoscerlo e al suo paese negano che sia mai nato

( il sindaco si è mangiato il suo certificato di nascita).

Per me è il miglior peggior nipote del mondo. E non ne ho altri!

 

 

firmato  N.N.

 

 

Capitolo diciannovesimo

 

FRANCO  ZEFFIRELLI

 

 

Quand’è nato erano tutti convinti che fosse un altro John Holmes: un sesso esagerato! Rimasero subito delusi appena la levatrice, Angelona, ritrasse la sua manona ed il suo ditone da sotto il culetto del bambino. Suo padre si consolò subito:

” La chiameremo Patrizia!” gongolò soddisfatto.

“ Ma se è un maschio?” lo rimproverò Angelona.

“ Come sarebbe?! - fece il papà, piuttosto autoritario - Da dove si vede, secondo te?” Angelona, nonostante la mole rimarchevole, sapeva che non c’era molto da scherzare con quell’uomo; perciò fece spallucce e se ne andò.

Così, forse per non contraddire il genitore, Franco cercò sempre di fingersi una bambina. Giocava con le bambole, piangeva per un nonnulla e, mentre i suoi coetanei già si ammazzavano di seghe, lui passava ore a pettinare i suoi boccoli biondi. Quando non c’era suo padre in vista, masticava tabacco, violentava domestiche, spaccava la faccia ai naziskin, apriva le birre coi denti e ruttava in faccia ai poliziotti... Ma, appena da lontano si stagliava la figura paterna, correva a vestirsi come Rossella O’Hara, riprendeva il suo birignao, e sbattacchiava le sopracciglia. Appena suo padre scoprì il doppio gioco, tentò il suicidio. E, siccome di suicidio si può anche morire, ci rimase secco. Fu un bel funerale.

Franco pianse tutte le sue lacrime e cercò di graffiare il titolare delle pompe funebri: secondo lui era stato organizzato tutto malissimo e la gente era disposta male. Scoprì così la sua vena artistica.

E iniziò ad organizzare funerali. Pensò anche a delle riprese filmate.

Venne scoperto da Luchino Visconti, mentre cercava di forzare la custodia della sua cinepresa. Visconti, invece di denunciarlo, lo prese come suo aiuto:

non si ricordava infatti dove cazzo avesse messo la chiave e si fece aiutare da Franco a scassinare la custodia. Aiuta oggi, aiuta domani: divenne aiuto regista del grande Maestro. Poi si montò la testa e cominciò a fare film per conto suo. In realtà erano degli orribili fumettoni, delle specie di telenovelas: un po’ più lenti, ma molto, molto più costosi. Luchino vedendo quelle cagate morì di crepacuore. Franco organizzò subito un bel funerale, cui partecipò tutta la Firenze che contava: Mario Cecchi Gori. Ne venne fuori un corteo molto composto. Naturalmente i funerali veri, a sua insaputa,  si tennero altrove e vi parteciparono decine di migliaia di persone!

Franco vanta e sbandiera una fraterna amicizia con Liz Taylor. Ma, si sa, Liz è molto legata anche a Michael Jackson e a tanti altri casi umani.

Franco, comunque, questa volta non si farà fregare e sta già organizzando un funerale indimenticabile per la sua amica del cuore.

Ultimamente, non trovando più uno straccio di produttore per i suoi film, si è messo a corteggiare Silvio Berlusconi Communications. Silvio, pur di levarselo dalle palle, gli ha fatto fare la regìa dei suoi spot (quelli con la calza velata davanti all’obbiettivo, per intenderci. Fosse stato per Franco, gli avrebbe messo pure una giarrettiera rossa intorno alla fronte inutilmente spaziosa. Gli avrebbe dato un’aria frou frou che piace molto nel suo giro...). Questi famosi spot sono costati talmente tanto, che i bilanci di Berlusconi sono andati ancor di più in rosso (sarà per questo che vede comunisti dappertutto?). “Con quei soldi ci avrei fatto tre Ben Hur, dieci Cleopatra, e un film di Kevin Kostner!E ci avrei pure pagato i fornitori della Standa.” si lamenta Silvio. Per calmarlo, Franco si è messo a disposizione per preparargli un indimenticabile funerale. Berlusconi ha fatto i debiti scongiuri, toccando legno: aveva le teste di Pilo e Previti a portata di mano; quindi ha piazzato Franco al Senato della Repubblica. “Se ti piacciono tanto i funerali, aiutami a seppellire la Democrazia!” gli ha detto. Lui, appena ha sentito “zia”, è saltato su tutto felice: “Anche Silvio è dei nostri! Peccato che si trucchi in maniera così sfacciata, però, sembra un viado!” Intanto ha preso a saltellare ed a cinguettare vezzosamente per tutte le sale ed i corridoi di Palazzo Madama, cercando di beccare da solo Francesco Speroni: vuole sincerarsi di persona se i leghisti ce l’hanno veramente duro. Per la verità, vorrebbe sapere anche qualcosa circa le dimensioni, la durata, eccetera. Per questo, ogni volta che c’è un fuggi fuggi, chè sembra sia scoppiato un incendio al Senato: in realtà si tratta delle estenuanti corse di Speroni, inseguito da Franchino. “Scappa, scappa...Te lo prendo! Vedrai che te lo prendo!” squittisce il regista mancato, slalomando come Tomba, tra i mobili antichi e i saloni.

“ La prossima volta che cerca di baciarmi, lo faccio prendere a “schiaffo” da Boso. Ne basta uno solo: visto che manazze che ha?” si lamenta Speroni.

Sono due settimane che non lo vedo. Forse sta preparando i funerali per la par condicio. O per l’antitrust?

 

Un forte abbraccio da zia Ernesto

 

 

 

 

 

FINE  (per ora…)